Il  governo è diviso e non fa nulla. Per poter sopravvivere è costretto a non decidere, quindi niente decreto sviluppo e riforma delle pensioni in alto mare. Da tantissime parti si chiedono le dimissioni del premier e un nuovo governo che decida cosa fare e lo faccia al più presto, ma le richieste di dimissioni sono come abbaiare alla luna se non c’è un’alternativa pronta e credibile. Cosa farebbe l’attuale opposizione se dovesse andare al governo?  Con quali alleati e con quale programma?

E’ naturale che le domande vadano rivolte al principale partito di opposizione e cioè al Pd a cui spetta principalmente l’onere di raccogliere le forze alternative attorno a dei provvedimenti concreti. Il problema è che il Pd negli ultimi mesi, a parte la quotidiana richiesta di dimissioni (che lascia il tempo che trova), sembra diviso sui programmi e incapace di scegliere le alleanze. A dirlo è proprio la presidente del partito; in un’intervista al Messaggero di pochi giorni fa, Rosy Bindi dice che “quando pensiamo a un governo formato da Bersani, Di Pietro e Vendola ne cogliamo tutto il limite; quando pensiamo a un governo che vada da Vendola a Fini è difficile spiegarlo”. Insomma il Pd è stretto fra lo schieramento di Vasto (Bersani-Vendola-Di Pietro) ed uno più ampio (allargato al Terzo Polo).

Il nodo delle alleanze non è solo una questione di numeri, ma diventa inevitabilmente un problema di programmi. La ‘vocazione maggioritaria’ di Veltroni sembra definitivamente archiviata, ma la soluzione non può essere un ripiego al vecchio Ulivo o alla vecchia Unione. Un governo con Vendola e Di Pietro sarebbe capace di dare risposte all’Europa, ai mercati e sarebbe in grado di fare le riforme che Berlusconi non ha fatto? Il prossimo Presidente del Consiglio si può presentare a Bruxelles e dagli altri capi di Stato con una piattaforma programmatica simile a quella degli indignados?

L’Italia è ormai con le spalle al muro e rischia di trascinare con sé l’euro e l’Unione europea, pertanto questa volta Oltralpe non accetteranno bizantinismi, riforme annacquate nel tempo o all’insegna del ‘ma anche’. Chi si presenta come successore di Berlusconi deve dire chiaramente se accetta o respinge i ‘suggerimenti’ di Draghi e Trichet nella famosa lettera. Il Pd deve dire se il prossimo governo attuerà “la piena liberalizzazione dei servizi pubblici locali e dei servizi professionali” e se lo farà attraverso “privatizzazioni su larga scala”. Deve dire inoltre se aumenterà la flessibilità del mercato del lavoro sostituendo agli antichi riti della contrattazione collettiva un nuovo sistema che favorisca “accordi al livello d’impresa”, come richiesto proprio dalla Bce.

Idv e Sel, Di Pietro e Vendola, sono fermamente contrari a queste riforme, come lo sono sull’innalzamento dell’età pensionabile; l’unica scelta che sembra mettere d’accordo tutti sembra l’aumento delle tasse (che è forse l’unica cosa non richiesta vista l’attuale oppressione fiscale). L’impressione è che con un’alleanza del genere il Pd possa riuscire a scrivere un programma unitario (magari diluito in trecento pagine come ai tempi dell’Unione) e magari anche a vincere le elezioni, ma non sarebbe capace di fare una delle riforme necessarie.

Ritorneremmo ad una sorta di Unione o di governo Prodi 2.0, una cosa che il nostro Paese dopo il governo Berlusconi, nelle condizioni in cui si trova, non può proprio permettersi. Questa volta sembra ribaltata la teoria di Marx: prima che la storia, che si è già manifestata in farsa, si ripresenti in tragedia, qualcuno dalle parti del Pd faccia qualcosa (di liberale e riformista).

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