Sono quasi trenta milioni e si distribuiscono in tre Stati: l’Iraq (5 milioni), l’Iran (7 milioni) e la Turchia (15 milioni), ai quali vanno aggiunte le due comunità della Siria (1 milione) e dell’ex Unione Sovietica (350mila). Nei primi tre, molti di loro sono a capo di una sanguinosa lotta armata. Nel Kurdistan iracheno, che sfugge al controllo di Baghdad, si organizzano gli attacchi agli Stati vicini e il contrabbando d’armi. E’ tra i frastagliati monti Qandil, situati tra l’Iran e l’Iraq, che si trova il principale ‘nido d’aquila’ della guerriglia. Dal 1991, le potenze turca ed iraniana moltiplicano le operazioni militari per mettere fine alle organizzazioni ribelli. Dopo la prima Guerra del Golfo, l’autonomia di fatto del Nord dell’Iraq ha fatto gioco dei movimenti indipendentisti curdi. Nessuno di questi Paesi, salvo l’Iraq che si è impegnato su questa strada, sembra essere pronto a garantire loro i diritti culturali e l’autonomia che rivendicano.
Questo territorio montagnoso, al confine tra Iraq, Iran e Turchia, è dalla scorsa estate teatro di una guerra tanto poco ‘mediatizzata’ quanto sanguinaria. I Guardiani della rivoluzione islamica (GRI, i Pasdaran), esercito ideologizzato della Repubblica iraniana, hanno passato all’artiglieria pesante le zone frontaliere del Kurdistan iracheno. In agosto, l’aviazione turca è entrata a sua volta in azione, bombardando la regione. Risultato: villaggi distrutti, popolazione in fuga, vittime civili. Malgrado le proteste delle autorità irachene, l’esercito turco ha risposto che le operazione sarebbero continuate fino a che “il nord dell’Iraq non fosse diventato una zona vivibile e sicura”. Da parte iraniana, il capo dei GRI dichiarava che l’offensiva sarebbe terminata “quando i terroristi non avessero più infestato la regione”.
Poche settimane fa è arrivata la risposta. I ribelli curdi venuti dall’Iraq hanno assalito una serie di postazioni militari turche nella provincia di Hakkari. Secondo gli osservatori militari, è stata una delle azioni più sanguinarie e spettacolari – condotte dal PKK contro l’esercito turco – degli ultimi vent’anni. I bollettini macabri erano diventati quasi routine negli ultimi mesi, le perdite subite ad Hakkari hanno però fatto prendere coscienza alla società turca che la guerriglia si sta trasformando in un vero e proprio confronto militare. Questo attacco supera la nozione di atto terroristico avvicinandosi a quella di guerra.
La nuova operazione militare del PKK è stata condannata dalla comunità internazionale. Il Presidente Obama ha apertamente dato i suo sostegno alla Turchia nella sua lotta contro i terroristi del PKK. Ban Ki-Moon ha espresso la sua preoccupazione e ritiene inaccettabile che il territorio iracheno venga utilizzato come campo base per gli attacchi ai Paesi vicini. Il Consiglio d’Europa, il governo iracheno e la stessa regione autonoma curda del Nord dell’Iraq hanno severamente giudicato gli assalti criminali di Hakkari. Il Presidente del Governo regionale curdo, Massoud Barzani, ha mostrato i suoi timori per gli interessi del popolo del Kurdistan. Non dimentichiamo che dal 2007, Ankara ha stretto legami sempre più rigidi con i curdi iracheni e che Erdogan è andato in visita ufficiale a Erbil la scorsa primavera. La questione è delicatissima e gli equilibri precari. Il governo turco sta cercando di non cadere in un rilancio nazionalista perché il Parlamento, dove i deputati hanno appena messo fine ad un’azione di boicottaggio, si appresta a modificare la Costituzione e affrontare la questione cercando di arrivare finalmente ad una risposta politica. Erdogan ha chiesto a tutti i Partiti di fare blocco nella lotta contro il PKK.
C’è coordinamento tra Ankara e Teheran? Molti lo pensano, anche se le autorità militari non si esprimono in tal senso. Certo che gli attacchi sincroni di quest’estate in Iraq sono sospetti. Senza scambio di notizie i piloti turchi potevano benissimo confondere le forze iraniane per truppe ribelli. Davutoglu ha incontrato pochi giorni fa il suo omologo iraniano Salehi evocando un progetto di reazione comune contro il PKK e il PJAK (ramo iraniano del PKK). Il capo della diplomazia turca è arrivato a dubitare del coinvolgimento iraniano nel tentativo di attentato all’ambasciatore saudita a Washington, quando una settimana prima aveva chiesto alla Repubblica islamica di far chiarezza sul caso. Questo incontro inoltre, si è tenuto poco dopo che Teheran aveva criticato Ankara per aver rinnovato il supporto logistico militare agli USA e soprattutto dopo le rivelazioni della stampa turca sull’arresto-liberazione in Iran del numero due del PKK; episodio interpretato da molti osservatori come dimostrazione della capacità di Teheran di strumentalizzare la questione curda contro la Turchia. La carneficina di Hakkari ha rilanciato le congetture di una possibile strumentalizzazione della questione curda anche da parte della Siria. Già nel 1998 la Turchia aveva minacciato di dichiarare guerra alla Siria perché sosteneva il PKK e oggi, il regime di Assad ha concesso la nazionalità siriana agli “stranieri di Hassakeh” (cittadina a nord est della Siria). Ankara ha anche dato il suo sostegno al Consiglio nazionale siriano.
Il Trattato di Sèvres del 1920 aveva previsto la creazione di uno Stato curdo. Il Trattato di Losanna ha però ridisegnato il Medio Oriente cedendo quei territori alla Turchia kemalista. I Curdi sono oggi il più grande popolo senza Stato. Se molti di loro non sperano più nell’indipendenza, sognano di poter vivere un giorno liberi sulla loro terra. Ma un popolo che utilizza tre alfabeti, parla tre dialetti, conta numerose minoranze religiose e una moltitudine di partiti politici sottomessi a qualsiasi influenza può creare un insieme omogeneo? Oggi, al di là della violenza, le richieste del PJAK, del PKK e della maggior parte dei curdi mirano ad ottenere l’autonomia regionale in seno agli Stati esistenti. Si spera che la Turchia sia forte abbastanza e riesca a dare l’esempio di democratizzazione tanto atteso, applicando lo Stato di Diritto e arrivando allo scioglimento di una matassa aggrovigliata da troppo tempo.
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