La mannaia dei tagli sibila minacciosa da tempo sui settori più disparati, si tratta solo di capire quando e in che modo affonderà la sua lama. L’editoria e in particolare i giornali non sono stati risparmiati dalla violenta scure di Tremonti. E non da oggi, già da qualche anno.

E poi lo chiamano Quarto Potere. Bisogna però fare un salto all’indietro per capire meglio il fenomeno.

La legge che disciplina il finanziamento dei “prodotti editoriali”, realizzati cioè “su supporto cartaceo, ivi compreso il libro, o su supporto informatico, destinato alla pubblicazione o, comunque, alla diffusione di informazioni presso il pubblico con ogni mezzo, anche elettronico, o attraverso la radiodiffusione sonora o televisiva, con esclusione dei prodotti discografici o cinematografici”, è la n. 62 del 7 marzo 2001 (“Nuove norme sull’editoria e sui prodotti editoriali e modifiche alla legge n. 416 del 5 agosto 1981”).

Dieci anni fa, quindi, il legislatore ha sentito l’esigenza di mettere di nuovo le mani su quella norma anche alla luce dell’avvento di internet (esploso all’inizio degli anni Novanta) e dell’incredibile fase di passaggio che ha coinvolto un po’ tutto il mondo dell’informazione, basti pensare alla trasformazione dei giornali generalisti che cominciarono a sfruttare il web con i siti on-line di riferimento tramite redazioni che si occupavano e si occupano esclusivamente della versione telematica. Da lì in poi la crescita è stata esponenziale, e prodotti editoriali che dapprima sfruttavano la rete solo per la pubblicazioni degli articoli, oggi sono davvero all’avanguardia in alcuni casi grazie anche ai supporti audio-video e alla partecipazione attiva dei lettori. Una multimedialità interattiva che ha garantito da una parte la crescita di molti giornali, ma che ha anche favorito il calo del numero delle copie vendute in edicola. Spesso si sente dire che i quotidiani cartacei sono in crisi, che in Italia si legge poco, ma a confrontare un po’ di dati ci si può rendere facilmente conto che solo in parte è vero. Trent’anni fa si leggeva lo stesso poco in Italia e quasi mai si è sfondato il milione di copie vendute per i maggiori quotidiani (mentre all’estero si realizzavano ben altre statistiche), le vendite hanno avuto un andamento altalenante anche quando internet era già alla portata di tutti.

Una legge del 1987 ha praticamente fatto nascere autorevoli quotidiani di fondazione più o meno recente come “Il Foglio” e “Libero”. In pratica bastava che due deputati dicessero che il tal giornale fosse un organo di partito, che così poteva attingere ai contributi.

Tornando alla norma del 2001, la stessa è stata brutalizzata nel corso degli anni fino ad arrivare ai drastici tagli previsti dalla legge di stabilità (ora in discussione al Senato) che oggi mette a repentaglio la sopravvivenza di decine e decine di testate. Dai circa 660 milioni di euro che il Dipartimento per l’informazione e l’editoria presso la Presidenza del Consiglio dei ministri metteva a disposizione nel 2006, e invece dei 184 milioni di euro previsti dal Fondo per l’editoria per il finanziamento “diretto” – al netto dei 50 milioni destinati a far fronte al pagamento del debito che il governo ha con l’Ente Poste per le tariffe agevolate e degli oltre 40 milioni della convenzione tra lo Stato e la Rai – saranno disponibili non più di 30 milioni di euro. Una miseria che mette in serio pericolo testate storiche come L’Unità, L’Avvenire, Il Secolo d’Italia, Il Manifesto, Liberazione, La Padania e tutta una serie di realtà locali come i settimanali diocesani che solo grazie al fondo riescono a sopravvivere.

Per il pluralismo dell’informazione sarebbe un colpo mortale, a tutto vantaggio dei grandi gruppi editoriali. I direttori delle maggiori testate hanno fatto quadrato chiedendo l’intervento del Capo dello Stato Giorgio Napolitano, il quale si è mostrato sensibile alla causa ma è certo che se il taglio avverrà, da gennaio potremmo non vedere più in edicola giornali storici.

Ma come si è arrivati a questo? Un’inchiesta di Report di qualche anno fa fu illuminante in tal senso, individuando tutta una serie di testate – alcune delle quali praticamente inesistenti o che nemmeno avevano mai visto un’edicola – che beneficiavano del sostegno dello Stato. Tra costi dichiarati dalle cooperative giornalistiche e vendite reali si ricavava così la cifra che poteva essere erogata dal Governo per la singola testata. In questo mondo parallelo alle redazioni c’è chi ne ha approfittato, vale la pena di citare il recente caso del latitante Lavitola e del foglio (quattro pagine) che dirigeva (L’Avanti), praticamente introvabile ma che ha beneficiato nel 2010 di oltre due milioni e mezzo di euro: un’enormità. Ma ci sono anche casi che hanno individuato vere e proprie truffe ai danni dello Stato con tanto di inchieste di Procure e Finanza, come ad esempio i giornali locali del senatore-editore Ciarrapico,  accusato di aver percepito indebitamente fra il 2002 e il 2007 fondi per 20 milioni di euro (cifra rivista dalla Corte dei Conti e che ammonta a 45 milioni di euro).

E’ chiaro che in un quadro del genere i tagli previsti potrebbero affossare anche le testate che non sono arrivate a questi eccessi. Ciò sarebbe inammissibile e deleterio, ma giova ribadire che lo Stato non può tramutarsi in un’acquasantiera da cui attingere sempre e comunque. Qualità e autorevolezza del prodotto editoriale devono diventare, oltre che parametro di valutazione, un must. Fnsi, Mediacoop, Confcooperative, Cgil, Federazione dei giornali diocesani e i direttori dei giornali coinvolti hanno chiesto criteri rigorosi e innovativi per accedere ai finanziamenti diretti, a cominciare dall’accertamento del reale numero di dipendenti regolarmente assunti, della vendita e distribuzione.

C’è anche un’altra chiave di lettura: chiudendo decine di giornali, fra redattori e addetti si perderebbero circa 4mila posti di lavoro. Una marea di persone pronta a rivolgersi agli ammortizzatori sociali. Quindi se da una parte si taglia, dall’altra si continuerebbe a sborsare denaro pubblico. Cui prodest? Allora, selezione con assoluti criteri rigorosi e innovativi – appunto – e non tagli indiscriminati senza metodo e con il rischio di brutalizzare lo stesso diritto di espressione e di informazione sancito anche dalla nostra Carta Costituzionale.

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