Nella maggior parte dei Paesi civilizzati del mondo un Governo deleterio e inconcludente come il Berlusconi IV sarebbe caduto da un pezzo. Solo un personaggio dall’ego smisurato, menefreghista delle sorti del suo Paese e con un conflitto d’interessi elefantiaco come quello del Cavaliere di Arcore avrebbe potuto concepire – come in una tirannia e per sfida personale o come Nerone che secondo leggenda disse “insieme a me bruci tutta la città” – di vessare per quasi quattro anni l’Italia e mortificare la vita di milioni di cittadini. Non solo di quelli che il disastro se l’aspettavano e alle elezioni del 13/14 aprile 2008 non avevano concesso il voto al centrodestra, ma anche di moltissimi altri che con l’andare del tempo – di poco tempo – hanno capito di aver riposto male nelle urne le loro aspettative.

Dopo tre mesi dall’insediamento, più di un sondaggio già rimarcava la perdita di circa dieci punti percentuali nel gradimento dell’elettorato nei confronti del partito del premier, il Popolo della Libertà. Dato sempre smentito dai ‘personalissimi’ rilevamenti berlusconiani. I conti cominciarono da subito a non quadrare. Proprio nel momento in cui sarebbe servita un’azione decisa, a senso unico, senza distrazioni, per evitare il tracollo della finanza pubblica e quindi la caduta nel burrone in cui oggi ci troviamo e dal quale è cosa ardua risalire.

Ma tant’è, il Berlusconi IV (52 anni l’età media dei 22 ministri, il più giovane della storia italiana, la trentunenne Giorgia Meloni) nacque il 7 maggio 2008 sulle ceneri del Governo Prodi, grazie a tre milioni di voti in più rispetto alla coalizione avversaria e una maggioranza ‘bulgara’ composta da 344 deputati e 174 senatori. Naturalmente, complice la legge Porcellum.

Con riferimento a fatti recenti, quattro versioni per approvare la manovra dello scorso settembre. Poi all’inizio dello scorso ottobre Berlusconi andava assicurando che il suo Governo avrebbe presentato il decreto-sviluppo entro la metà del mese. Oggi, dopo oltre trenta giorni, di quel documento non c’è ancora traccia, ma poco dopo il Cavaliere aveva già ammesso che “di soldi non ce ne sono”. Altro che tutta colpa della crisi planetaria. Non vi è stata alcuna, come detto,  azione decisa e mirata, solo il lavorio di un Esecutivo disposto, pur di godere dei benefit derivanti dal potere, a dare la priorità agli interessi personali del premier anziché costruire un’immagine di destra moderata, determinata e degna dell’Europa.

Mettere insieme i pezzi in modo ordinato dell’ultimo Governo Berlusconi è impresa piuttosto complicata. Come dover realizzare un enorme puzzle, costretti a cercare migliaia di tessere in tante scatole diverse. Si può cominciare con le magre soddisfazioni. Come quella dell’effimera soluzione dell’emergenza rifiuti in Campania, ripresentatasi puntuale in breve tempo. O il salvataggio dell’Alitalia che oggi è comunque in mano agli stranieri. Come – più che effimera è stata inesistente (se si eccettuano le ridicole casette prefabbricate) – la soluzione della catastrofe che ha messo in ginocchio L’Aquila col terremoto del 6 aprile 2009. Con annesso affaire Bertolaso legato agli appalti illeciti per la ricostruzione del capoluogo abruzzese. E che dire della, ridicola insistenza per la realizzazione del ponte sullo stretto di Messina. Stratagemma propagandistico su un’opera ad altissimo rischio di infiltrazioni mafiose del cui progetto s’è poi smesso di parlare per il resto della legislatura.

Poi assai più lunga la sfilza di astrusità a dir poco imbarazzanti, con la Lega Nord subito pronta a minacciare di far mancare la fiducia per la contesa fra l’aeroporto di Malpensa e quello di Fiumicino. Bazzecole rispetto al continuo rinvio su federalismo fiscale e devolution, con promesse di caduta del Governo, anche se poi l’armata nordista è stata sempre pronta a votare la fiducia, per non perdere poltrone troppo comode nell’odiata ‘Roma ladrona’.

Come tralasciare la figuraccia internazionale sulla questione dei rom? “Le nuove misure italiane sull’immigrazione non tengono conto di diritti umani e principi umanitari con il rischio di fomentare altri episodi xenofobi”, fu il pesantissimo atto d’accusa nei confronti del governo Berlusconi da parte del Consiglio europeo. Occasione nella quale il pacchetto sicurezza italiano subì un’ennesima bocciatura, confermando quella funzione di pedagogia etica assunta dall’Europa dopo l’insediamento dell’Esecutivo berlusconiano.

Per quanto riguarda la catena di fallimenti a livello politico-umano, viene naturale cominciare dal clamoroso strappo con Gianfranco Fini, Presidente della Camera dei Deputati, suggellato durante la direzione nazionale del Pdl nel 2010. Nel luglio 2007 le prime avvisaglie di allontanamento tra i due, dopo circa tredici anni di sodalizio, quell’alleanza che risultò fondamentale nel lontano 1994 per la prima, imprevedibile vittoria del nuovo centrodestra capitanato da Forza Italia. Lo stesso Fini il quale, dopo molti bocconi amari inghiottiti, ha deciso finalmente di mettere da parte la diplomazia ed esprimere dissenso nei confronti del comportamento del Governo e di Silvio Berlusconi in particolare. Scelta resa pubblica con il suo intervento, ormai già durante il Berlusconi IV e dopo aver aderito al Pdl, contro l’iniziativa della maggioranza di blindare il testo normativo di programmazione economica. Per Fini, davanti alla richiesta di un nuovo voto di fiducia (pratica vergognosamente inflazionata in questi anni), “ci troveremo in presenza di una situazione non soltanto anomala ma anche politicamente deprecabile. Una situazione che toglie alla Camera il diritto-dovere di emendare e di assumersi le proprie responsabilità, attraverso il formarsi di maggioranze su questo o quell’emendamento”. Presa d’iniziativa inaccettabile per il Capo: subito una lettera, un documento quasi deridente nei confronti dell’oggi ex leader della disciolta Alleanza Nazionale e attuale guida di Futuro e Libertà per l’Italia. Missiva contenente il malcelato invito a smammare dalla coalizione governativa e la richiesta di dimissioni dalla quarta carica dello Stato. Trentatré deputati e 10 senatori ex An lasciarono il Pdl. A quel tempo probabilmente non si aspettava, Berlusconi, che un giorno per ultimare la legislatura l’appoggio di Fini sarebbe stato determinante. Con una maggioranza che, da schiacciante, s’è andata assottigliando sempre più nonostante lo ‘scilipotismo’ degli ultimi e inqualificabili mesi. Ma non solo Fini. Continui atti delegittimanti del ruolo del Parlamento. Forzature e manifestazioni di prepotenza.

Non l’unico strappo con l’alleato della prima ora. Altra lite quella col Pdl siciliano capitanato dal governatore Raffaele Lombardo, rappresentante di un Meridione che sempre più si è sentito messo in disparte dalle politiche ‘nordiste’ dell’asse Pdl-Lega. E poi lo sganciamento dell’ex fedelissimo Gianfranco Miccichè – oggi leader nazionale di Forza del Sud – allo scopo di obbligare il premier “ad accogliere le richieste del Meridione”.

E ancora, recentissimo (lo scorso ottobre), il gelo e poi la fine della sintonia col super-ministro del Tesoro, Giulio Tremonti il quale al G20 di Cannes – in uno stato di tensione reciproca evidente – ha consigliato a Berlusconi di andarsene, altrimenti “sui mercati sarà un bagno di sangue” (frase seguita da smentite dello stesso Ministero). Questo dopo essersi trovato costretto (sempre Tremonti) in conferenza stampa a far intendere di essere dalla parte del premier italiano.

Qualche passo indietro, altre tessere del puzzle, quelle che vanno a formare la più macchiettistica zona del quadro. Il caso-Ruby – forse il più clamoroso – ma prima ancora quello di Noemi Letizia (la goccia che fece traboccare il vaso e che causò la definitiva separazione dalla moglie Veronica Lario), la ‘pupilla’ di Papy, spacciata dal Premier semplicemente come figlia di amici del Casertano, giurando sui propri figli (solenne dichiarazione di pessimo gusto che Berlusconi ha ‘prestato’ più volte nel corso della sua carriera politica). Senza dimenticare Patrizia D’Addario, che scoperchiò il pentolone del via vai di escort organizzato ad hoc dall’imprenditore pugliese Gianpaolo Tarantini.

Ruby ‘Rubacuori’ si diceva (e la scoperta del cosiddetto Bunga-Bunga che sollevò un’indignazione nazionale da parte delle donne, “Berlusconi dimettiti e curati”), ragazza intraprendente che nell’ottobre 2010 in principio venne ‘venduta’ alla stampa e senza senso del ridicolo quale nipote del presidente egiziano Hosni Mubarak (che per questo pretese scuse ufficiali). Una minorenne da soccorrere, secondo il nostro primo ministro. Poi – conseguenza delle odiate ma rivelatrici intercettazioni telefoniche – l’accusa di sfruttamento della prostituzione minorile, per la quale mister ‘ghe pensi mi’ è ancora sotto processo. Ma Ruby (“meglio essere appassionato di una bella ragazza che gay”) non era che la punta dell’iceberg il quale teneva sott’acqua il sistema che ha esposto il Presidente del Consiglio a continui ricatti, come quelli della stessa D’Addario e più di recente di persone senza scrupoli quali, principalmente, Valter Lavitola e Tarantini stesso. Un’inchiesta – nella quale risultano cene, feste e orge – finita sul tavolo della Giunta per le autorizzazioni a procedere della Camera. Prove dell’esistenza di un giro di ragazze di ogni tipo: italiane, cubane, venezuelane, domenicane. Belle, bellissime. Disposte a tutto. A travestirsi da infermiere sexy. Insomma “qualcosa di mai visto”. Di “indecente”. Tanto che per partecipare a quegli incontri bisogna “essere pronti a tutto”.

E avanti – mettendo da parte l’inopportuna (per un  premier) erotomania – coi continui, ripetuti, infiniti garbugli e aspre polemiche con i pubblici ministeri, scontro da Berlusconi catalogato come “deriva giustizialista”. “Sono in assoluto il maggiore perseguitato di tutte le epoche dalla magistratura, di tutta la storia degli uomini in tutto il mondo. Perché ho subito più di 2.500 udienze (…) senza che sia stato partorito nemmeno un topolino”, è andato ripetendo in continuazione per quasi un ventennio. Ma a parte questo, anche esternazioni al limite della liceità istituzionale. Perché costretto a tutelarsi da svariate inchieste giudiziarie (senza mai presentarsi in tribunale) che mettono a rischio i suoi personali interessi economici. Tutto tempo perso e che avrebbe dovuto essere impiegato per governare un’Italia coi conti più in basso del rosso e con indici dell’economia sempre più preoccupanti, a dispetto di continue promesse mai mantenute – anzi alla fine tradite – sulla volontà di ridurre la pressione fiscale.

Poi il pandemonio scatenato dalla riforma nel settore dell’Istruzione, per la quale fu mandata avanti un’incerta ma aggressiva ministra Gelmini. Si potrebbe continuare per pagine e pagine. Ad esempio il caso Scajola con le dimissioni da ministro dello Sviluppo economico in seguito all’affaire Anemone. Il caso del coordinatore del Pdl, Denis Verdini, coinvolto in inchieste legate alla mafia. Ancora, quello del ministro delle Politiche agricole, Francesco Saverio Romano, che al momento della nomina costrinse il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ad esprimere riserve a causa dei procedimenti giudiziari pendenti sull’interessato.

Veniamo al presente. Forse, più dei guai interni – aggirati grazie a tattiche dilatorie, manovre di palazzo e presunte compravendite di parlamentari (clamoroso il già citato caso Scilipoti) – a rendere impraticabile la tenuta del Governo di un Paese non in regola, è stata la totale assenza di credibilità da parte del ‘partito internazionale’ (comunque inaccettabili gli inopportuni sorrisetti fra la tedesca Angela Merkel e il francese Nicolas Sarkozy), cioè degli altri Paesi, europei e non solo (i cui richiami hanno via via cominciato a piovere ogni giorno). Così come da parte dei mercati finanziari di tutto il mondo, degli operatori di borsa internazionali, senza tralasciare, all’interno, l’aspra sfiducia resa pubblica da Confindustria.

Al G20 di Cannes il Presidente Usa, Barack Obama, non ha neppure salutato il primo ministro italiano. Patetica era stata la lettera scritta di pugno da Berlusconi inviata all’Unione, contenente i primi provvedimenti dell’emendamento alla legge di stabilità ma piena di “limiti” e “spiegazioni insufficienti”, che ha spinto i ministri delle finanze dell’Ue a organizzare per la settimana successiva una riunione straordinaria dell’Eurogruppo sul rafforzamento del fondo salva-stati e in particolare sulla situazione italiana. Ma ancor prima c’era stata la decisione da parte del Fondo monetario internazionale (Fmi) di semi-commissariare l’Italia (Roma come Atene, ormai), vale a dire di mettere sotto controllo i nostri conti. In parole povere, arrivo a Roma di ispettori della Commissione Ue per verificare l’attuazione delle misure anti-crisi decise dal Governo italiano. E poi quello degli uomini del Fmi. Questo, va detto, nonostante la fine – forse definitiva – del berlusconismo. Oggi il rischio è che l’Italia, da settima potenza industriale, diventi un Paese di irresponsabili che ha messo a rischio addirittura l’euro (e in discussione, con la sconsiderata uscita proprio di Berlusconi sulle presunte colpe della moneta unica: “… è una moneta un po’ strana…”).

La fine di un’epoca causata anche dalle inevitabili ‘fughe’ (tradimenti come li ha sempre chiamati il premier) dal Pdl e le spinte della Lega a farsi da parte (Maroni: “Vediamo una continua uscita di rappresentanti. O il Pdl riesce a ricompattare le fila, oppure dobbiamo prendere atto che non c’è più la maggioranza). E a inizio novembre una lettera dei ‘frondisti’ del Pdl per chiedere a Berlusconi un passo indietro, un nuovo Esecutivo e l’allargamento della maggioranza. Nella lettera si faceva riferimento alla necessità di approvare subito le misure chieste dall’Europa. Soltanto creando nuove condizioni – si sottolineava nella missiva – è possibile evitare le elezioni anticipate e salvare il Paese. Ma fino all’ultimo Berlusconi ha continuato a ripetere “io non me ne vado, voglio vedere in faccia i traditori” (presunti, diciamo noi), la ben nota ossessione del tradimento del Cav. E quando nel 1994 a ‘pugnalarlo’ fu il presunto amico Bossi, il Cavaliere lo definì “un Giuda, un ladro di voti, un ricettatore, truffatore, traditore, speculatore”. Insomma, tornando ai giorni nostri, dopo avere ripetuto per mesi e mesi la cantilena che la sua era una maggioranza “coesa” il Cavaliere non poteva accettare di essere smentito.

I vertici – summit anche notturni – dell’Esecutivo a Palazzo Grazioli, negli ultimi giorni si sono succeduti a ritmo frenetico. Poi l’amaro responso di martedì pomeriggio (8 novembre), quando c’è stata sì l’approvazione del Rendiconto per il 2010 da parte della Camera (con 308 voti), ma con il “non voto” di ben 321 deputati, cioè fine della maggioranza a Montecitorio. Lo specchio della verità su quella che è stata la crisi politica più dolorosa per il Cavaliere. Con lui, però, ancora lì a controllare il tabulato dei voti per vedere chi lo avesse pugnalato alle spalle, senza mai una crepa nella granitica convinzione di essere l’Infallibile. Poi inevitabile l’ascesa al Colle dove ad attenderlo c’era Giorgio Napolitano. Berlusconi obbligato ad ammettere la propria consapevolezza delle implicazioni del risultato del voto di poche ore prima alla Camera. Ma pronto a chiedere di attendere l’approvazione della Legge di Stabilità (quella che contiene il maxi-emendamento che trasforma in norme gli impegni presi dal Governo italiano con l’Europa), opportunamente emendata alla luce del più recente contributo di osservazioni e proposte della Commissione europea e “fatta passare” l’11 novembre al Senato ed il giorno dopo alla Camera. Un’uscita di scena al rallentatore. Con l’opposizione – e la Lega da considerare ormai una sorta di ‘nemico’ aggiunto – che sospettavano che Berlusconi volesse prendere tempo e scavallare Natale. Un tirare a campare che avrebbe potuto inserire un margine di ambiguità temporale, dirimente per un Paese esposto da mesi alla speculazione finanziaria.

Un  Berlusconi ostinato nel voler ancora dettare legge, come sulla forma di Governo che seguirà. Aveva anche annunciato di voler chiedere la fiducia al Senato sul pacchetto Europa, in modo da dimostrare che il governo tecnico non si farà mai, ma che l’unica possibilità (a parer suo) fosse quella della formazione di un nuovo Esecutivo di centrodestra, stavolta capeggiato dall’“ottimo” Angelino Alfano, nel segno di un cambio generazionale.

Sabato 12 novembre, Silvio Berlusconi sale al Colle in una fresca serata d’autunno per rassegnare le dimissioni – sue e del Berlusconi IV – nelle mani del Capo dello Stato.

Ed intanto c’è l’Italia reale che va avanti, seppure ancora senza certezze. Va avanti capitanata con serietà istituzionale e sensibilità politica dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano cui va il merito di aver impresso una spinta ragguardevole alla soluzione della crisi e di indirizzare quest’ultima verso un epilogo con un governo tecnico, con la nomina a senatore a vita di Mario Monti – l’unico serio candidato al ruolo di Presidente del Consiglio – aumentandone un prestigio comunque già consolidato ma aggiungendovi una rilevante connotazione politica. Ciò nell’auspicare la formazione di un governo snello, operativo, con la presenza di ‘tecnici’ in ruoli chiave, ma nella foto di gruppo anche facce di politici. L’identikit del nascituro governo Monti (di certo con il placet dei mercati) parte da qui. Ma di certezze al momento ce ne sono poche. C’è la necessità di stringere al massimo i tempi, tanto che già ‘consultazioni’ informali erano in corso. Ma restano ancora grossi nodi da sciogliere per giungere a realizzare quelle riforme liberali, più che mai necessarie a garantire il necessario risanamento e rilancio  economico, insieme all’urgente riforma della legge elettorale.

© Rivoluzione Liberale

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