Quanto è lontano il 2007, sembra passata un’Era da quando, quattro anni fa, l’ex ministro dell’Economia e delle Finanze, Tommaso Padoa Schioppa (scomparso quasi un anno fa) bollò i giovani italiani con il poco felice appellativo di ‘bamboccioni’, attirandosi così non poche critiche bipartisan. L’idea di partenza era quella di spronare le nuove leve a darsi da fare, di non stare a casetta con mamma e papà in attesa del lavoro migliore.

Ebbene, quei bamboccioni oggi sono cresciuti. Vivono ancora dai genitori, magari con moglie e figlio a carico. Sono i “non più giovani”, quelli nati negli anni ’70, cresciuti nei meravigliosi anni ’80 e catapultati, loro malgrado, nel nuovo millennio del Bel Paese. Ragazzi che hanno visto il crollo del muro di Berlino e il dolorosissimo trapasso dalla prima alla seconda Repubblica. Molti di loro si ritrovano in mano il ‘pezzo di carta’ (straccia), sono passati per stage, contratti di apprendistato e co.co.co., vivono con un sogno sigillato in un cassetto. Non gli è stato fornito il grimaldello della Speranza. Trentacinquenni e quarantenni che la gavetta l’hanno fatta e continuano a farla. Disillusi e rassegnati, affidano i ‘curricula’ alla Rete, alle agenzie interinali, al Collocamento, sapendo che se non hai una ‘spintarella’ in Italia non vai da nessuna parte. Le donne si presentano ai colloqui di lavoro sapendo già di provocare l’orticaria, perché la gravidanza è un pericolo, una peste bubbonica. Sono i figli di una rassegnazione a tempo indeterminato.

Generazione troppo vecchia per gridarlo in piazza. L’indignazione si mettono a digrignarla tra i denti, con le mani giunte, come un’orazione da sussurrare. E allora è anche e soprattutto a questi giovani adulti che lo Stato ‘deve’ qualcosa. No, non solo risposte. A questi figli di un’Italia maltrattata il futuro di speranza deve essere garantito. Una promessa, un graffito sui muri che il vento (e le chiacchiere) non possono scalfire. E’ l’ultima occasione da dare ai padri e le madri di famiglia che hanno scelto questo Paese per vivere e morire. Del resto, una nazione che non cresce invecchia dentro.

Verso molti di loro lo Stato ha colpe incalcolabili che si ripercuotono sullo stesso “sistema Paese”. Assistiamo infatti da anni a ‘transumanze’ – di cervelli, competenze, eccellenze, meriti – non più dal Mezzogiorno verso il centro-nord, ma dall’Italia al nord Europa. In fuga da un Paese che non gli piace più, in cui ormai non credono, giovani e meno giovani, laureati o diplomati che siano, praticano da tempo un sport piuttosto diffuso: parlar male del proprio Paese, rinnegandolo quasi. I commenti di certi italiani all’estero fanno venire la pelle d’oca. Senza generalizzare, non tutte le storie sono uguali; qualcuno ha fatto bene a cogliere al volo occasioni che evidentemente in Italia gli sono state negate, ma sputare con violenza inaudita sul piatto dove si è mangiato, salvo poi tornare per le vacanze estive a godersi il mare nostrum e rifare la conta dei disservizi e inefficienze italiane “mentre lì, all’estero, invece funziona tutto”, beh, suscita sentimenti di condanna da mal di pancia patriottici.

Parole come sgravi alle imprese che assumono, aiuti alle giovani coppie, sostegno alle famiglie numerose, flessibilità, opportunità, incentivi al lavoro, riduzione della pressione fiscale, mutui e prestiti agevolati, politiche per la casa – insomma, “sviluppo” – non devono assumere i contorni di un’invocazione, ma i punti cardine sui quali si deve fondare il Governo che verrà.

Alimentare il lumicino della speranza in una crescita del Paese e farlo adesso, prima che sia troppo tardi perché, si diceva, non c’è futuro senza giovani e, ripetiamo, una nazione che non cresce invecchia dentro.

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