Da subito nel suo agile saggio/diario intitolato Come abbiamo vinto il referendum. Dalla battaglia per l’acqua pubblica alla democrazia dei beni comuni, Marco Bersani, socio-fondatore di ‘Attac Italia’, rende palese un’impetuosa e consistente mancanza di liberalismo e spirito democratico. Ci sono tratti del volumetto edito da Alegre, in cui il tema principale (la vittoria del referendum del 12 e 13 giugno scorsi contro la privatizzazione dell’acqua), scala in secondo piano. Per questo no-global sfegatato originario della provincia di Pavese (laureato in filosofia e impegnato in modo encomiabile – va sottolineato – anche nei servizi sociali) ciò che conta sopra ogni altra cosa è lo ‘sterminio’, senza possibilità di dialogo, delle altrui convinzioni. Con le orecchie tappate e il ‘megafono’ alla bocca, urla il suo editto con fare sprezzante proprio dell’essenza democratica dello stesso istituto referendario di cui si erge a paladino.

Il libro (scritto con una lingua facile e scorrevole), ha due anime: quella invasata ed eccessiva che fa della lotta alle privatizzazioni una vera e propria ossessione (ricordiamo a Bersani una lettera della Banca centrale europea che parla chiaro: “Privatizzazioni, liberalizzazioni e vendita del patrimonio demaniale dello Stato sono le uniche strade da percorrere per risanare il fardello del debito”), e quella più pacata e razionale che analizza il vitale successo dei referendum quale testimonianza del ritorno entusiasta dei cittadini alla partecipazione politico-sociale del Paese. Da una parte la irruente campagna neo-comunista contro i “principi liberisti della solitudine competitiva, dell’individualismo estremo, della caduta dei valori solidali”, dall’altra la sacrosanta esaltazione della vittoria referendaria in generale, che “rappresenta una svolta storica (…) perché erano quasi vent’anni che un referendum non raggiungeva il quorum”. Vittoria – quella del giugno scorso – sulla quale, tuttavia, Bersani ignora o finge di ignorare quanto abbia pesato l’impulso rabbioso più che ragionato dei cittadini contro Berlusconi. Reazione sì comprensibile ma che ha riportato, di fatto, a una supremazia di un sistema statalista e illiberale. L’istituto referendario, con questo, non c’entra. Come potrebbe, dal momento che proprio grazie ad esso ci si augura anche di poter abbattere la vergognosa legge elettorale in vigore, chiamata Porcellum. Una lotta nella quale il Partito Liberale Italiano è impegnato in prima linea e ha già fornito un contributo corposo con la raccolta delle firme necessarie all’indizione.

Rabbia, appunto, sentimento di una maggioranza di italiani alla quale – come dimostrato dal recente crollo del consenso nei confronti del Governo caduto di recente – bastava fare uno sgarro al premier, dandogli un’altra mazzata dopo quella sferrata alle ultime elezioni amministrative. Nulla di nuovo, sempre nel caso di acqua (così come di nucleare) è quindi avvenuto in seguito a battaglie demagogiche e studiate per deragliare l’opinione pubblica, proprio come quelle condotte da Marco Bersani & Co. Una grande confusione, in  parole povere, tra populismo e liberalismo (spesso scambiato col liberismo sregolato degli ultimi vent’anni). La legge vigente sanciva che l’acqua è pubblica così come anche le infrastrutture idriche sono pubbliche. Perciò nessun referendum avrebbe potuto stabilire che in Italia l’acqua debba essere un bene pubblico. Per il semplice fatto che è sempre stato così.

Bersani, col metodo della generalizzazione, parla di conduzioni privatizzate “impopolari presso gli abitanti, per i forti aumenti delle tariffe, accompagnati da gestioni inefficienti e con scarsissimi investimenti sulle strutture idriche”. Affermazione facilmente confutabile, dal momento che in Italia la misura delle tariffe è determinata dagli enti locali (Comuni), non dai gestori del servizio. Secondo il ‘filosofo’ “le stesse multinazionali” a partire dal 2003 “iniziarono ad accorgersi di aver sopravvalutato le proprie aspettative di profitto, in quanto la gran parte degli abitanti delle metropoli del sud del mondo non pagava le bollette per il semplice motivo che non poteva farlo”. Fatto che avrebbe causato la fine di molte gestioni in mano a privati. Ma non cita, Bersani, il caso della Puglia, regione nella quale, dopo una campagna forsennata contro gli affaristi e speculatori che volevano guadagnare sull’acqua, non sono state abbassate le tariffe del 7% di ‘remunerazione del capitale’ perché secondo il governatore Nichi Vendola quel 7% non è una remunerazione del capitale ma un ‘costo’. In pratica rimane tutto come prima e il referendum è servito a sostituire la parola ‘remunerazione del capitale’ con ‘costo’.

Insomma, qual era l’obiettivo – esecrabile a nostro avviso – dei promotori del referendum esaltato in questo saggio? Fare in modo che le pubbliche amministrazioni continuassero a gestire i servizi locali, per non interrompere la prassi del clientelismo politico, attraverso appalti e assunzioni (ciò che si può definire come ‘capitalismo municipale italiano’). Usanza che – come già spiegato – verrebbe soppressa con la semplice privatizzazione della gestione del bene già di per sé pubblico. Vero è che privatizzare, però, deve fare rima con revisionare in modo sostanzioso e regolato da apposita giurisprudenza, al fine di garantire la bontà dei servizi offerti al cittadino.

Nel suo sorvolare soluzioni alternative, Bersani dimostra la ferrea volontà di non accettare o almeno valutare una difformità di pensiero. Di escludere la possibilità di confronto. Strizzando la carta del suo libello, si vede gocciolare l’astio verso tutto ciò che non è omologato all’ideale dell’anti-globalizzazione. Un continuo mettere in discussione “la legittimità delle grandi istituzioni finanziarie internazionali”, al punto di tentare di “impedire fisicamente lo svolgimento dei grandi vertici stessi”, come a esempio quello dell’Organizzazione mondiale del Commercio (Wto, vedi il caso eclatante di Seattle nel 1999). Impedire fisicamente? E poi fingono di non essere – seppure muovendosi da uno spirito pacifista – invischiati nelle gravi conseguenze delle tante, troppe, manifestazioni che degenerano in violenza.

Il volume si sviluppa a partire dal primo movimento per l’acqua di Cochabamba (Bolivia), passando per le privatizzazioni dell’acqua in Italia. Per poi parlare del ‘miracolo’ referendario, della “vittoria contro le politiche liberiste” e “contro la democrazia formale”. Analizza il valore aggiunto fornito dai movimenti di protesta radicale (“laboratorio di democrazia partecipativa”), insomma di una presunta nuova democrazia. Alcuni contenuti risultano di indubbio interesse e contribuiscono – a seconda dei casi – ad arricchire il bagaglio di personale conoscenza. Apprezzabile l’ammissione dell’attivista/scrittore che sia necessario “costruire un nuovo modello di pubblico (Pubblica amministrazione, N.d.R.), che deve fondarsi sulla partecipazione sociale”. E consenso merita, a esempio, il conclusivo assunto che esista “la necessità di impattare dentro i luoghi della decisionalità politica (…) iniettando una salutare dose di democrazia diretta contro (…)  l’universo referenziale”. Perché al momento è inesistente la “comunicazione tra quanto avviene nella società e quanto si discute nella sfera politico-istituzionale”.

All’autore del volume nessuno vuol negare – ci mancherebbe – il diritto alla contestazione. Ma sarebbe bene che Bersani tenesse in considerazione che esiste una contro-contestazione intesa come dialogo, tolleranza non come accettazione infastidita, bensì quale apertura nei confronti di un differente modo di intendere la società e la politica.

Come abbiamo vinto il referendum. Dalla battaglia per l’acqua pubblica alla democrazia dei beni comuni, di Marco Bersani (2011; Edizioni Alegre; pp. 126; € 13,00).

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