“L’appuntamento è a Ponte di legno, alla sede del CEPU. Lui è il preside . Dopo aver tentato anche con l’ipnosi di farlo studiare, il babbo ha comprato la sede e imposto il ragazzo. Ha una stanza enorme con una scrivania minuscola. È più carino di persona, la sua faccia ha un colorito verde trota, come la cravatta che indossa.
A’ che laur! Mi dice indicando le montagne che si vedono dalla finestra. Guarda che roba, traduce.
Io mi siedo paziente. Consigliere, che ne pensa della situazione attuale? Mi guarda sbigottito. L’occhio tondo spalancato. Che vuol dire, mi ripeta la domanda. Che-ne-pensa-della-situazione-attuale, scandisco con sottotitolo a pagina 777. Osservo il tagliacarte e vorrei conficcarglielo in mezzo al nulla.
Lui suda, si alza. Non era questo che doveva chiedermi, mi avevano detto che prima avremmo conversato amabilmente. Bene dico io, allora riformulo la domanda. Lei che campa a fare? Lui sorride, è abituato agli insulti, tutte le sere il babbo lo prende a calci nel sedere con la gamba buona e lo fa dormire dentro l’acquario. Bhè, mi so bravo, l’a ciapade sö (le hanno prese) tutti meno che me. Meno che noi essi loro. Ebbene siamo i migliori. Ce l’abbiamo duro. Ride come un ebete, lo immagino scappare nel torrente per sfuggire a una pesca al tocco. Mi rassereno pensando che in inverno, spesso, cammina su sentieri a rischio valanghe.
Cosa fa in Regione, quale incarico ha? Bhè, io entro e loro escono. Io parlo e loro se ne vanno. Loro chi, scusi? Tutti, mi risponde triste, solo l’usciere mi parla, mi chiede se voglio la michetta con il lardo o la lepre; ora mi scusi un momento, devo fare la lezione di sardo. Di sardo? Chiedo. Sì, era l’unico corso senza allievi. Allora il babbo mi ha iscritto. E poi lui dice che bisogna imparare le lingue straniere.
Mi sento sconfortata, vorrei piangere. Si apre la porta e un tipo brutto sporco e cattivo bofonchia qualcosa, sembra come di sentire un temporale in lontananza, un’orgia di suoni gutturali. Capisco solo uru umu urg org, sarà un codice. Lui ride: scusi sa, il babbo mi ha mandato a chiamare, da quando ha avuto l’ics lo capisco solo io. L’ics, chiedo io. Sì sì quella cosa che viene, lo sciopon, lo struncon, come dite voi a valle. Io lo capisco bene sa, parla come un manga giapponese. Parla e gesticola, sembra Sampei. Ride e si contorce.
Mi sono alzata ricordando a memoria la lezione numero tre di autocontrollo , ho girato i tacchi e, cantando l’inno italiano sono uscita. Poi ho sperato in un fulmine sulla sede.”
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Be’, per strada sentivo l’altro giorno tre ragazzini sui dieci anni parlare del loro “futuro”. Quello al centro: “i-o f-a-c-c-i-o i-l m-a-g-i-s-t-r-a-t-o” e uno ingenuo a fianco “eh, il presidente della repubblica?” e lui, stizzito con fare da vero pubblicofunzionarioimpunitoinerba “no! i-l m-a-g-i-s-t-r-a-t-o!!!”.
Mi fa simpatia invece questo ragazzo, con un padre ammalato.
A dirla tutta, gente che conserva i dialetti non è gente per male. Sempre migliore di chi ci vuol far parlare americano e vivere da schiavi vendendoci per quattro cents.
I loro demoni salvino la regina.