Il 2011 volge al termine e con esso si chiudono le celebrazioni dei 150 anni dell’Unità d’Italia. Non si è trattato, semplicemente, di un anno ‘commemorativo’ ma di una vera e propria ‘riscoperta’ della storia dell’Unità nazionale, che tra vicissitudini e contraddizioni ha trasformato il Paese in una ‘Nazione’ moderna. L’Unità nazionale affonda le sue radici nel Risorgimento italiano, il quale non corrisponde ad una “rivoluzione mancata” – come affermano alcuni storici – ma è stato un incubatore che ha curato la nascita dell’Italia come moderna nazione europea. Approfondire quindi la storia, il pensiero politico e la letteratura (come specchio della realtà) del nostro Risorgimento contribuisce ad incrementare una cittadinanza consapevole e la coscienza ‘civile’di ogni cittadino. Con questo spirito è nato il progetto della Fondazione Giacomo Matteotti “Il pensiero politico e letterario del Risorgimento Italiano” (ospitato nella Sala del Mappamondo a Palazzo Montecitorio lo scorso 16 dicembre in occasione Convegno dedicato all’analisi del pensiero politico), d’intesa con la Presidenza del Consiglio dei Ministri, sotto l’Alto Patronato del Presidente della Repubblica e con il Patrocinio della Camera dei Deputati.

Il progetto, come sottolinea il professor Angelo G. Sabatini, presidente della Fondazione Matteotti, intende proporre “una riflessione critica e attenta alle ragioni e al metodo della storia del pensiero, su personalità che nel costruire l’Italia hanno portato il loro contributo non meno dei sovrani, dei politici e dei condottieri, non esonerandosi dal vivere essi stessi l’impegno politico e la militanza risorgimentale”. L’iniziativa è nata per “rendere adeguato tributo a quel manipolo di pensatori che del ‘risveglio nazionale’ furono – pur con diversi accenni ed argomenti – teorici, ispiratori e mentori”. In effetti il contributo ottocentesco della filosofia politica, civile e letteraria alla formazione e all’affermazione dei nuovi principi di libertà, indipendenza e unità esige un approfondimento che, attraverso la commemorazione dei valori della Storia d’Italia, sia in grado di rivitalizzare nel presente le fondamenta della libertà e della democrazia. Il progetto di rinascita dell’Italia chiamato ‘Risorgimento’ si è fondato sul nesso forte tra democrazia e liberalismo per concretizzarsi nella formazione della ‘Nazione’ grazie ai pensieri, alle parole e alle azioni di grandi maestri di coscienza ‘civile’, laica e repubblicana: un travaglio intellettuale di personalità che occorre, senza dubbio, rivalutare, soprattutto in periodi di ingente crisi politica, economica, morale e civica come quello attuale.

Pensatori “minori” accanto ai “padri” della nuova Italia che, insieme, hanno contribuito a formare il sentimento e l’identità nazionale i cui prodromi si annidano nel Triennio rivoluzionario 1796-1799, un periodo centrale nella storia identitaria per i suoi significati politici, culturali e civili. In esso maturano le prime esperienze costituzionali e parlamentari; le popolazioni delle diverse realtà della Penisola sperimentano istituzioni e ordinamenti comuni; viene adottato il vessillo tricolore; nasce il giornalismo d’opinione; si impostano nuovi progetti di istruzione ed educazione popolare; le donne iniziano a reclamare i propri diritti; gruppi minoritari come gli ebrei iniziano ad essere equiparati al resto della popolazione.

Nei patrioti italiani dell’ultimo scorcio del Settecento – appellati “giacobini” dai loro avversari – matura, con forza, il ‘sentimento nazionale’ e, grazie a loro, i concetti di ‘Italia’ e d’‘italianità’ superano i confini della retorica e della letteratura per entrare a far parte della cultura politica, instradando nuovi percorsi per i protagonisti del secolo successivo. Il dibattito sulla lingua italiana, fiorente nel Cinquecento con le “Tre Corone” Dante, Petrarca e Boccaccio, nel Triennio appare rivitalizzato e trasformato, rispecchiando la floridezza di pensiero del tempo. L’importazione di termini ed espressioni del vocabolario d’Oltralpe, favorita anche dall’iniziale libertà di stampa, provoca inoltre l’insofferenza di numerosi letterati d’Italia che promuovono movimenti a difesa della lingua italiana. L’uso del termine ‘Italia’ si afferma nel linguaggio non solo colto e letterario ma anche politico. Nella campagna di difesa dell’italiano si agitano così questioni di autonomia politica e si affermano questioni legate all’indipendenza della Penisola, dove diversi Stati sono stati ormai liberati da regimi e dinastie ritenuti non rappresentativi della volontà del popolo sovrano. La lingua comune diventa un fattore necessario per un ‘comune sentire’, come sottolinea anche il Capo dello Stato Giorgio Napolitano nel suo ultimo libro “Una e indivisibile”.

Tornando alla storia, Vincenzo Cuoco (1770-1823) considera la Rivoluzione Napoletana del 1799 il primo germe dell’Unità Italiana. Egli sottolinea però anche i limiti dell’esperienza partenopea, condannata necessariamente all’insuccesso perché “passiva” in quanto importata dalla Francia e dunque poco adatta alle esigenze spirituali e materiali del popolo partenopeo. Per Cuoco molti degli stessi patrioti “avevan la repubblica sulle labbra, pochissimi nel cuore”. Nuove realtà politiche, argomenta Cuoco, possono essere costruite con successo solo mettendo al centro dell’azione politica il popolo e il suo ‘comune sentire’ e favorendo la traduzione giuridica e politica di quest’ultimo. Anche dopo l’Unità sono note le parole con cui il politico, scrittore e pittore Massimo D’Azeglio (1798-1866) incornicia la realtà: “Purtroppo s’è fatta l’Italia, ma non si fanno gli italiani”. Occorreva portare a termine un compito, molto probabilmente più arduo dell’Unità territoriale: creare una ‘coscienza unitaria’ nazionale nei cittadini italiani. Un forte limite era dettato, non a caso, dalla separazione linguistica che allontanava il popolo dalla classe più colta. A tale proposito appaiono illuminanti le analisi della direttrice del “Monitore napoletano”, Eleonora, Fonseca Pimentel, fin dai tempi della Rivoluzione napoletana: “Una gran linea di separazione e forse maggiore, che in qualunque altro luogo disgiunge fra noi questa parte dal rimanente del Popolo, appunto perché non si ha con essa un linguaggio comune. Se ben si rimonti alla cagione de’ nostri ultimi mali, si vedranno derivati particolarmente da questa nostra separazione: è il segreto d’ogni tirannia, e molto più lo fu della nostra, il fomentarla; il nostro segreto dev’esser quello di sollecitamente distruggerla”.

L’Italia post-unitaria appare quindi come un Paese unito sul piano politico, geografico e territoriale ma diviso sul piano culturale e linguistico e, forse più gravemente, sul piano dell’identità: l’Italia unita non è ancora espressione di un’identità nazionale forte. Un Paese che subisce, come illustra molto chiaramente Manzoni nei “Promessi Sposi”, il passaggio continuo di altri popoli, che soffre l’assenza di una propria soggettività politico-culturale ma che alla fine, nonostante tutto, si ritrova “libero”: “Passano i cavalli di Wallenstein, passano i fanti di Merode, passano i cavalli di Anhalt, passano i fanti di Brandeburgo, e poi i cavalli di Montecuccoli, e poi quelli di Ferrari; passa Altringer, passa Furstenberg, passa Colloredo; passano i Croati, passa Torquato Conti, passano altri e altri; quando piacque al cielo, passò anche Galasso, che fu l’ultimo. Lo squadron volante de’veneziani finì d’allontanarsi anche lui; e tutto il paese, a destra e a sinistra, si trovò libero”.

In questo scenario è decisiva l’azione mazziniana, basata sull’idea che la costruzione di una nuova realtà politica è possibile solo mediante un ruolo attivo delle classi popolari. Secondo Giuseppe Mazzini (1805-1872) il popolo deve essere educato, formato alla politica e alla democrazia, per poter partecipare alla costruzione della Nazione, esprimendo al meglio la propria sovranità popolare. Nell’Italia post-unitaria si avverte così una forte spinta dal basso, come testimoniano i 60 mila iscritti alla Giovine Italia, e l’opera di formazione mazziniana si rivela fondamentale per l’affermazione della sovranità popolare e per la formazione della ‘coscienza civile’ della Nazione. Centrale nel pensiero di Mazzini, come in quello di tutti i democratici liberali dell’epoca, il nesso tra democrazia, patria e libertà. Il patriota genovese, primo fra gli altri, sostiene che la libertà non debba essere un privilegio di pochi ma piuttosto un patrimonio di tutti. Mazzini riflette infine sul legame Italia/Europa, riflessione che nel campo della letteratura interessa anche l’opera di Alessandro Manzoni. Secondo i due illustri esponenti del Risorgimento Italiano, l’Unità nazionale deve necessariamente tradursi in una chiara e forte ‘soggettività politica’ dell’Italia, ciò che rappresenta il passaggio imprescindibile per la democratizzazione dell’intera Europa: l’Italia unita e libera, totalmente riformata nelle sue istituzioni e nella sua base sociale, avrebbe animato il rinnovamento europeo.

Un’Italia, quindi, dotata di una propria politica nazionale, di proprie strutture e infrastrutture, ma costantemente alla ricerca di una sua ‘modernità’ che le permetta di essere una pedina attiva, rilevante e autonoma, sulla scacchiera politico-economica europea ed internazionale.

La ‘costruzione’ dell’Italia è, ancora oggi, la cifra dell’identità nazionale ma, come in passato, il sacrificio operato nel presente rappresenta per la Nazione italiana la giustificazione per la costruzione del domani, nel rispetto costante dell’articolo 5 della Costituzione per cui l’Italia è “una e indivisibile”.

© Rivoluzione Liberale

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2 COMMENTI

  1. carissima Barbara, migliore augurio per il 2012 non lo potevi scrivere. Te lo scrive uno che è stato nella Dio e popolo di Giuseppe Mazzini e per questo accusato di una sterminata serie di delitti!! Buon 2012 Giancarlo Colombo

  2. Carissima Barbara,
    leggo sempre con molto interesse i suoi articoli, compreso questo ed anch’esso si aggiunge ad una produzione di qualità documentata e circostanziata storicamente. Tuttavia, pur ritenendo l’unità del paese ormai come un valore personale e sociale nonchè un dato di fatto, non riuscirò mai a commemorare pienamente alcunchè fintanto che, con metodo liberale, la “dittatura storiografica risorgimentale” non metterà mano ad una seria “revisione” su quello che successe nel meridione d’Italia tra il 1860 ed il 1880 (ed anche oltre ma mi fermo li) quando la Sicilia ed il Sud vennero letteralmente affamate e “rase al suolo” tanto che gli stessi parlamentari del Nord dell’epoca inorridirono nei confronti dei metodi usati dall’esercito e dal governo. Il solo Regno delle Due Sicilie (che già di per se tanto simpatico a noi Siciliani non stava) venne privato del suo tesoro nazionale che contribuì al ripianamento del 60% delle spese di guerra del Regno di Sardegna che altrimenti sarebbe andato in piena bancarotta. Ma mentre a Genova, Milano e Torino si fecero strade, ferrovie ed industrie, qui si affamarono i contadini con le tasse sul macinato e gli sparò addosso chiamandoli “briganti”. Sarebbe finalmente interessante che proprio tra noi liberali iniziasse una seria presa di coscienza ed un sostanzioso dibattito sul prezzo enorme e non volontario che il Meridione d’Italia pagò all’Unità del paese. Che si fa, ne parliamo?
    Un caro saluto

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