E’ scomparso a 91 anni Giorgio Bocca, un uomo che settant’anni fa iniziò a scrivere i fatti del nostro Paese. Partigiano, scrittore e schierato ma soprattutto giornalista molto amato e non solo, con molti estimatori e altrettanti detrattori: di fatto, sempre letto da tutti.
Per chi scrive di mestiere o per passione di “fatti e notizie”, è stato e rimane comunque uno dei grandi e inimitabili protagonisti del giornalismo degli ultimi cinquant’anni. Per gli altri – quelli che scrivono solo di dietrologie perché disinteressati alla semplice verità – una delle tante indecifrabili e impolverate icone di questo mestiere; buon per loro.
Tanto è stato detto e scritto su Bocca, tanti sono i “coccodrilli” già pubblicati e allora ci limitiamo a ricordarlo con una sua frase di una intervista rilasciata proprio un anno fa alla conduttrice di un noto programma di un’emittente televisiva che nel telecomando compare dopo i sei canali di ‘RaiSet’: “Non si può essere considerati giornalisti se non si ha il coraggio di dire la verità e la verità non è né di sinistra né di destra”.
© Rivoluzione Liberale

Ma Lui la verità, solo la verità, tutta la verità e nient’altro che la verità, la mai detta nei suoi articoli?
Non mi sembra che Lui abbia mai posseduto questo coraggio, quindi non faceva certo il giornalista, non faceva informazione, ma semplicemente un prezzolato pennivendolo.
Carissimo direttore,
Vorrei soffermarmi anch’io sulla figura che hai voluto ricordare, nel momento della sua scomparsa dalle terrene tribolazioni, con il tuo intervento.
Il Bocca fu certamente un protagonista, quale che sia poi la declinazione qualitativa che a questo protagonismo si voglia dare, del mondo italiano della scrittura. Il fato gli fu talmente prodigo nell’arte della scrittura che riuscì, in una sola vita, ad esaltare con i suoi “versi”: il Fascismo, il manifesto della razza, Giustizia e Libertà, il Centro-Sinsitra, Craxi, la Lega e non mi ricordo cos’altro. Era poi un abilissimo segugio, abilità che doveva aver affinato da partigiano in montagna mentre sparava ai suoi ex “camerati” della RSI; infatti era capace di fiutare il minimo alito di “vento di reflusso” ben prima degli altri e così si scagliava prontamente contro il monsone che egli stesso aveva contribuito a creare ed alimentare sapendo che sarebbe caduto di li a poco. E così qualcuno vedeva in quel partigianello un Davide coraggioso che sfidava il Golia di turno a colpi di impietosa e savonaroliana penna. All’uomo poi non mancò di certo la capacità di essere giudice e pubblico censore. Questa in particolare fu un’attitudine alla quale si formò quando presiedendo un Tribunale del Popolo nel ’45 ove non esitò a condannare a morte un ufficiale dell’esercito della RSI che si era macchiato di particolari efferatezze nella lotta contro i partigiani. Ma oltre alla condanna alla morte il Presidente Bocca non risparmiò al prigioniero la “legge del taglione” ed il fascista, prima delle pallottole, si beccò torture, sevizie, maltrattamenti ed oltraggio di cadavere post-mortem. Non si può non convenire che un giudice di tal fatta, “camerata” del condannato fino a due anni prima, non potesse avere la statura morale di diventare pubblico censore dei costumi italiani dei settant’anni a venire. Ma lui e lui solo poteva esserlo; perchè quando Giampaolo Pansa osò “rivedere” alcune cose sulla Resistenza egli tuonò, dal suo divino scranno alla destra dell’Altissimo, che la “revisione” non era legittima, non era morale. Ma si può anche capirlo; come poteva il nostro eroe concepire una “revisione” delle posizioni, lui che era sempre vissuto di “rotazione” (a 180°) delle posizioni.
Ma per una cosa, una su tutte, val per me la pena ricordarlo oggi e ti ringrazio di avermene dato l’occasione caro Direttore: la sua assoluta, incrollabile, indefettibile fede razzista.
Così come sottoscrisse in gioventù il manifesto sulla razza (e per la seconda volta non uso le maiuscole – come pur si dovrebbe in grammatica – per questo sconcio all’Umanità), fino alla morte ed in tutte le occasioni possibili cercò di classificare i meridionali come gente inferiore, pulciosa, inguaribilmente condannata da stessa al suo sottosviluppo: Lui era convinto che noi si fosse dei Neanderthal a cui Cavour aveva fatto il favore di portare la civiltà e che questi stessi “primati” avesse ricambiato l’immenso amore del Nord benevolo infettandolo con mafia, criminalità, malaffare e debito pubblico. Ma lui era un cultore della verità, lui sapeva che non era vero che il Regno di Sardegna aveva depredato il Sud di tutto per portare i soldi al Nord, pagare i debiti di guerra e costruire strade e ferrovie. Lui certamente sapeva che non era vero che gli inviati dei Savoia comprarono a piene mani l’appoggio della mafia e dei campieri per risolvere il plebiscito di annessione della Sicilia al nascente Regno d’Italia, così come sono certo che sapeva e diceva assolutamente la verità quando affermava che le Brigate Rosse erano una favola, anche se poi concesse all’inferiore volgo la possibilità di ammirare un rarissimo fenomeno provenire da parte sua: le scuse per essersi sbagliato. D’altra parte il soggetto doveva aver ben calcolato che mostrare un lato di umanità, anche per un semi-dio cuneese come lui, poteva esser ogni tanto opportuno. Bisogna pur vendere qualche copia, accidenti!
Giorgio Bocca non mi mancherà, carissimo direttore, perchè in fondo alle talentuose righe che sapeva mettere in sequenza ho sempre e soltanto scorto un saltimbanco da stazione centrale che truffa il lettore con il gioco delle tre carte, in fondo era molto più italiano di quanto non ci avesse mai concesso di credere.
Da dieci anni, invece, mi manca Antonio Russo (il 16 ottobre del 2001 fu trovato ucciso a Tblisi in Georgia) un giornalista freelance di Radio Radicale che per la verità arrivò a farsi ammazzare dal regime di Putin del quale denunciava gli orrori in Cecenia. Antonio fu l’unico giornalista al mondo a restare nascosto a Pristina mentre i Serbi vi entrarono a commettere le proprie atrocità, gli altri “eroi corrispondenti di guerra” con i loro sfiziosi laptop erano già scappati. Per tre giorni non si seppe se Antonio era vivo o morto. Se oggi il mondo conosce le atrocità commesse in Kosovo lo si deve anche, ed in gran parte, a lui.
Antonio è morto due volte: ucciso da un regime mostruoso ed illiberale ed ucciso dalla stampa italiana che perennemente lo dimentica, forse perchè non aveva mai voluto fare la tessera?
Carissimo direttore, a questo punto vorrei lanciarti una proposta. Il prossimo 16 ottobre potremmo fare una giornata speciale per ricordare anche Antonio?
Grazie, ti abbraccio sempre e ti ringrazio per lo spazio che ci concedi.
Ho voluto doverosamente ricordare un collega noto a tutti, non certo l’uomo schierato dove meglio il momento gli suggeriva. D’altronde, le reazioni (qui in numero minore e ben argomentate come la tua – politicamente anche condivisibile – caro Enzo; ma su Facebook e in mail private numerose e direi anche “astiose”) rendono merito al nostro giornale di esser stati “sulla notizia”. Questo è il giornalismo che prediligiamo: raccontare i fatti, lasciando i commenti e le valutazioni agli opinionisti che pur trovano ampio spazio su queste colonne.
Una chiosa personale. Tutto ciò dimostra che Bocca – condiviso o meno – è pur sempre letto da tutti e l’obiettivo di “ogni” giornalista (sia quelli veri che i “pennivendoli”, come dice Giuseppe Stella) è quello di essere letto, non certo di scrivere per sé stesso.
I colleghi che hanno perso la vita per raccontare la verità. Personalmente, distinguerei quelli “vittime” per le loro opinioni da quelli che scelgono un fronte di guerra. Sono sempre uomini, colleghi e curiosi di verità che tingono di rosso, purtroppo e loro malgrado, l’elenco di chi si dedica a questo mestiere ma i distinguo meriterebbero un intervento a parte. Dietro ogni giornalista c’è pur sempre un uomo con i propri limiti, debolezze ed esaltazioni che a volte lo spingono a sconsideratezze in nome di un mal riposto diritto/dovere dell’informazione. Ho testimonianze dirette di alcuni che sono preposti alla loro tutela in zone a rischio e che raccontano di inspiegabili insensatezze con “sprezzo del pericolo”. Come in tutte le cose, una buona dose di equilibrio sarebbe spesso auspicabile. Dico sempre ai miei Redattori che il nostro mestiere va fatto deontologicamente in nome della più alta professionalità possibile ma non siamo “chirurghi che devono operare a cuore aperto” per salvare la vita di chi gli si affida. Altri fanno questo mestiere, come è giusto che sia, noi facciamo solo e semplicemente i giornalisti. Sono poi certi lettori che, insensatamente, ad alcuni danno l’aureola di aruspici.
Carissimo Direttore,
ovviamente la mia replica non intendeva essere polemica verso di te, ma credo che questo tu lo abbia colto; diciamo che ho semplicemente approfittato dell’occasione e mi son lasciato “dare un passaggio” dal tuo pezzo per esprimere la mia opinione in merito. Anzi forse non l’avrei nemmeno scritta, tanto poco per me valeva il personaggio, se tu non avessi fatto cenno a quella citazione sulla verità. In realtà credo di aver inconsciamente usato il mio “sfogo” su Bocca per interpretare un certo modo tipicamente italiano di esaltare alcuni ed ignorare – non sto parlando del “nostro” Rivoluzione Liberale ovviamente – altri solo sulla base della virulenza della penna o di quanto le si spara grosse. Quello che in realtà volevo iniziare era proprio un certo tipo di discussione sul modo di fare informazione e su cosa è informazione di qualità. Tu giustamente continui a sottolinare che, nel bene e nel male, Bocca era uno molto letto mentre magari, aggiungo io giusto per categoria retorica, Antonio Russo non se lo filava nessuno. E qui siamo al punto Direttore. Perchè? Io non l’ho ancora capito, ma non dispero. Sono d’accordo con te che nessuno obbliga i giornalisti a morire e che forse non dovrebbero pensare a fare gli eroi. Sacrosanto direttore. Penso, anzi constato, però che quando rapiscono una del “Manifesto” in Iraq o uno di “Repubblica” in Afghanistan o quando muoino le Ilaria Alpi e le Maria Grazia Cutuli sono tragedie nazionali (e lo sono sia ben chiaro) che coinvolgono la nazione intera e migliaia di persone, stadi, minuti di silenzio, appelli televisivi, condanne pubbliche, indignazioni e magari anche riscatti pagati. Chi di questi ritorna è un eroe, chi ci lascia le penne minimo minimo gli intestano sette premi giornalistici, diverse aule universitarie, vie, strade, piazze e tutto il resto. Non che mi piaccia distringuere il colore del sangue delle vittime, anzi mi fa proprio schifo, mi farebbe sentire come il “de cuius”. Però, con tutti i distinguo che vogliamo i media in Italia questa distinzione, almeno con Antonio e chissa in quanti altri casi, l’hanno fatta eccome. Purtroppo, e non certo per colpa tua Direttore, in Italia esistono come sempre quei distinguo che possono fare la tua fortuna o la tua sfortuna a prescindere dal tuo valore, anche in caso di morte. Avere la tessera, lavorare per il Corriere e morire per mano talebana è un conto; essere un freelance, lavorare per Radio Radicale e crepare di KGB ovviamente è tutta un’altra storia. Ecco il perchè del mio intervento, voleva essere di stimolo ad una discussione qui, su questo ed in questo luogo di libertà vera che state costruendo bene e con buoni risultati. Un carissimo saluto e grazie per la replica e la pazienza. Ah…..dimenticavo, bella la metafora del chirurgo, anche se ogni tanto a qualche tuo collega la voglia di far qualche diagnosi al volo scappa.
Perdonami Enzo, ma a me sembra di poterti rispondere senza nulla aggiungere alla mia replica precedente e ‘al volo’ mi vien da dar risposta ai tuoi perché autocitandomi con “sono poi certi lettori che, insensatamente, ad alcuni danno l’aureola di aruspici”.