Milano è il cuore economico del nostro paese, una città europea e capitale finanziaria d’Italia. La città è sempre stata anche un grande laboratorio politico e spesso un test “ nazionale” per tutti i partiti. Un richiamo alla mente di pur grandi partiti del passato e del presente, come quando nel 1942, a casa dell’industriale Falk, venne fondata la Democrazia Cristiana o più recentemente altri movimenti politici dalle ormai incerte fortune.
Questi partiti nella storia hanno sempre utilizzato Milano come “indice” sul gradimento nazionale, una città che ha sempre rispecchiato correttamente il sentimento dell’elettorato.
Un solo movimento politico ha nel tempo subìto un’inversione di tendenza nel proprio andamento elettorale, la Lega. Il partito di Bossi ha negli anni considerevolmente perso consenso, riducendo notevolmente in città i risultati di ogni tornata elettorale rispetto a tutto il Nord Italia. Si ricorderà di certo Marco Formentini, ex sindaco leghista del capoluogo lombardo eletto nel 1993 con il 40% di voti per la Lega. Questo fu l’unico e incredibile exploit del Carroccio nella città meneghina. Da lì in poi furono inanellati risultati altamente deludenti (intorno al 4%) e anche oggi, stentano ad arrivare al 10%.
Questi dati sono in controtendenza rispetto a qualsiasi provincia lombarda, nonostante Milano, nell’idea leghista, possa essere considerata come la “capitale” dell’ipotetica Repubblica Padana.
Una capitale che però non vuole essere tale. Per quale motivo allora la Lega non riesce ad avere mordente? Perché attrae consensi in tutte le province della regione tranne che in quella del capoluogo?
Eppure questi luoghi sono pieni d’imprese ed artigiani che potrebbero ritrovarsi negli slogan e nella lotta del movimento costituendone teoricamente la base elettorale di riferimento.
È plausibile pensare che, in questa città invece, si senta fortemente il senso di appartenenza nazionale in quanto essa rappresenti l’orgoglio e, spesse volte, l’immagine dell’Italia nel mondo con l’eccellenza del design, della moda e del manifatturiero. I milanesi questo lo sanno e fieramente si fanno portatori del sentimento unitario.
Il “modus operandi” del partito di Bossi non rispecchia la tradizione culturale milanese, una città che ha sempre vissuto una forte immigrazione, prima dal Sud Italia poi dal resto del mondo. Non si trovano i caratteri xenofobi e di sofferenza unitaria, tipici del “pensiero” leghista, che invece, allo stesso tempo, trovano terra fertile in quei territori più arroccati alla tradizione e alle usanze locali (Alta Lombardia e zone del Nord-Est).
Milano registra un tasso d’immigrazione decisamente superiore rispetto alla media nazionale e proprio in ragione della sua cosmopoliticità rigetta la farneticante idea secessionista. La città ha accolto dagli anni ’50 in poi milioni di migranti, permettendo loro di realizzare le proprie speranze e i propri sogni; ma, anche grazie a loro, divenendo “cuore economico” dello Stivale. E poi, la città lombarda ricorda con orgoglio la lotta contro la dominazione asburgica che portò nel 1848 alle famose “Cinque Giornate di Milano”, sotto la guida del re Carlo Alberto; questa fu una delle spinte fondamentali che portarono all’unità nazionale due decenni dopo.
Oggi i milanesi sanno e sentono di essere italiani, non lo rinnegano e per questo motivo – sotto l’ombra della Madunina (la statua che si erge in cima al Duomo, simbolo della città) – cantano l’Inno d’Italia e non il Va Pensiero.
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