L’approssimarsi di un nuovo anno trascina invariabilmente con sé analisi e bilanci degli eventi susseguitisi nel corso dell’anno uscente. Esercizio generalmente sterile quando viene applicato a sistemi complessi come quelli statuali, ove le dinamiche sono talmente articolate ed eterogenee da generare scenari non prevedibili ex ante e difficilmente riconducibili a sistema ex post. Tutto ciò premesso, il 2011 è stato per i Paesi baltici un anno di transizione. Formula quanto mai logora e abusata, ma qui utilizzata nel suo significato più pieno. E cioè, quello di trasferimento (di potenza, di influenza, di relazioni).

Bastioni dell’occidente e feudi della new Europe, Estonia Lettonia e Lituania vivono oggi un rapporto assai più complesso fra padrone di ieri ed alleato di oggi. Le frontiere geografiche dell’Unione Europea non ricalcano i limiti geopolitici delle sfere di influenza dei principali attori in competizione nel vecchio continente: segnatamente, gli Stati Uniti, la UE stessa per mezzo del condominio franco-tedesco, la Federazione Russa. Il Baltico si trova proprio in una di queste linee di faglia, marca di frontiera in cui si sovrappongono e si fronteggiano i diversi contendenti. La competizione è stata segnata da un progressivo ritorno della Federazione Russa sulle sue (tradizionali) aree di influenza, e da un rattrappimento dell’UE dovuto alla crisi – economica in atto, di legittimità in potenza – le cui conseguenze non appaiono ancora ben definite. L’adesione delle repubbliche baltiche alla UE è stata dettata non solo da contingenze economiche, ma anche da necessità geopolitiche degne del vecchio containment che facevano da corollario alle aspirazioni tenacemente coltivate dai popoli baltici.

La partita si gioca su più campi, tra i quali quello energetico riveste un importanza fondamentale. La Lituania, primo Paese UE ad aver deciso quest’anno di implementare il TEP (Third Energy Package), si trova in un pericoloso empasse strategico. Infatti la parallela operatività del gasdotto Nord Stream fra Federazione Russa e Germania, se da un lato accrescerà l’interdipendenza energetica Eurussa, indebolirà in prospettiva la posizione dei Paesi baltici. Ad oggi, l’exclave russa di Kaliningrad (al confine fra Lituania e Polonia), è servita da un gasdotto transitante in territorio lituano, che concede una certa “rendita di posizione” al Paese baltico, ponendolo al sicuro da eventuali ritorsioni energetiche del gigante eurasiatico. Eppure, la posa del Nord Stream accuratamente fuori dalle acque territoriali estoni lettoni e lituane, unitamente alla progettata deviazione verso la detta exclave, pone una grossa sfida alla Lituania. Tanto più che i russi hanno già fatto sapere che l’unbundling previsto dal TEP della Lietuvos Dujos, utility lituana controllata dalla Gazprom, potrebbe avere spiacevoli conseguenze sulla fornitura di gas russo. Con la nuova centrale nucleare di Ignalina al di la dal venire, il solipsismo energetico della Lituania sembra  quantomeno avventato.

Gli altri Paesi baltici sono anch’essi sospesi fra brama di affrancamento e legami sempre più articolati con la Federazione. Il 2011 è stato l’anno delle elezioni in Lettonia. La mutilazione della vittoria del Saskaņas Centrs, se ha ricacciato indietro il pettine, non ha potuto sciogliere i nodi. La comunità russa continua a richiedere un riconoscimento più strutturato della propria condizione, passando anche per l’attributo fondamentale di ogni comunità organizzata: l’uso della propria lingua. La battaglia per la dichiarazione del russo seconda lingua ufficiale della Repubblica di Lettonia, iniziata quest’anno e destinata a prolungarsi fino al referendum decisivo che si terrà probabilmente a metà febbraio, se anche vedrà la sicura disfatta dei russofoni, rappresenta nondimeno un importante squillo di tromba. Le sconfitte possono forgiare gruppi e identità (contrappositive) più delle vittorie, come mutatis mutandi hanno sperimentato i Serbi che custodiscono la loro mistica nazional-religiosa nella disastrosa sconfitta della Piana dei Merli, Kosovo Polje, quasi 700 anni fa.

Anche l’Estonia riassume nel dilemma linguistico la frattura della propria comunità. Il presidente estone Toomas Hendrik Ilves, a questo proposito, ha recentemente affermato che il russo è “la lingua degli oppressori”. L’affermazione è verosimilmente suffragata da evidenze storiche, ma certamente dal punto di vista politico contribuisce ad alzare lo steccato culturale fra Estoni e Russi, che oltretutto incontrano difficoltà anche nella reciproca comunicazione.

Quanto esposto senza alcuna pretesa di esaustività – e oltretutto lungi dal poter rappresentare un vademecum per il 2012 – vuole semplicemente ribadire quanto più volte affermato nel corso dell’anno. Nessun dato storico-politico acquisito può darsi per automaticamente incontrovertibile, e la parabola dei Paesi baltici è sottoposta a straordinarie forze e pressioni le cui risultanti potrebbero determinare traiettorie geopolitiche del tutto imprevedibili alla luce degli elementi ad oggi in nostro possesso.

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