Di fronte ad una serie di libri apparsi negli ultimi mesi ci si può chiedere se stia emergendo una nuova forma di racconto autobiografico in cui il filo rosso che lega le vicende dell’esistenza è il calcio, fenomeno allo stesso tempo collettivo e privato. Memorie di partite mitiche e personaggi gloriosi diventano il pretesto per ripercorrere i propri ricordi, per raccontare un’epoca, per indulgere nella nostalgia delle città della propria infanzia, in cui la fantasia era capace di trasformare il cortile di un palazzo in uno stadio gremito.
Mi riferisco in particolare a due lavori. Il primo, “Addio al calcio” del poeta romano Valerio Magrelli (editore Einaudi), è un libro molto personale, composto da novanta racconti lunghi un minuto, come se fosse una partita di calcio, in cui l’autore ambienta la sua storia di amore e disamore con il pallone in una Roma virata in seppia. L’abbandono del calcio giocato diventa per Magrelli una piccola morte da condividere con il lettore, perché capisca che se non si può più vivere il calcio da attore, non vale più la pena neanche di seguirlo da spettatore, e all’eterno ragazzo che il pomeriggio scendeva da solo in cortile a calciare il pallone contro il muro “per imparare il controllo di palla”, non rimane che la fuga nella memoria, la consolazione di una grammatica di episodi familiare come quella delle sue poesie.
Nello stesso immaginario collettivo si perdono i ricordi di Franz Krauspenhaar, scrittore milanese che ha dato alle stampe “La passione del calcio” (editore PerdisaPop). Anche Krauspenhaar ci racconta la storia di una passione, quella per il calcio appunto, dall’inizio (gli anni delle figurine Panini a scuola, degli zii meridionali che lo portavano allo stadio, delle prime trasferte con i panini preparati dalla mamma) alla fine (lo scandalo del totonero, l’avvento di Berlusconi, la volgarità del football moderno). Il suo racconto, come quello di Magrelli, è prima dramma (gli anni della scoperta, del calcio vissuto) e poi epos (gli anni della maturità, del calcio solo raccontato), tanto da fargli ammettere che il pallone “è stata una parentesi, perché la nostra vita è fatta di ben altro”.
Alla base di questi oggetti editoriali inclassificabili eppure così affascinanti, in cui il calcio è il grilletto premuto per parlare di tutto il resto, risiede quel paradosso descritto dal brillante scrittore berlinese Thomas Brussig nel suo monologo “Fino a diventare uomini” (editore 66thand2nd). Scrive Brussig che “una partita di calcio avviene in forma di dramma, ma sopravvive come epos. Non c’è nulla di più divertente di una partita di calcio e non c’è nulla di più noioso di una partita di calcio di cui si conosca già il risultato. Una partita di calcio si regge sulla sua peculiare forza drammatica, ma solo fino al fischio finale. Dopodiché diventa racconto, diventa epos, diventa mito”. Il mito di cui si nutrono le storie di Valerio Magrelli e Franz Krauspenhaar, e anche le nostre.
