David Hume (1711-1776), storico e filosofo, è una delle figure più importanti dell’illuminismo scozzese. Molti studiosi considerano Hume come il terzo ed il più radicale degli Empiristi Britannici, dopo l’inglese John Locke e l’anglo-irlandese George Berkeley. In campo economico Hume rifiuta i dogmi del mercantilismo, sostenendo il libero scambio e la complementarità economica a livello internazionale, ed è pertanto annoverato tra i fondatori dell’economia politica classica insieme ad Adam Smith. Per il suo pensiero anti-metafisico, contraddistinto dal sigillo di una ragione fortemente radicata nell’esperienza, Hume è ancora oggi un punto di riferimento contro ogni tipo di ideologia e di dogma. Per il filosofo scozzese la natura non tollera, oltre una certa misura, sospensioni del giudizio; essa “per un’assoluta e incontrollabile necessità ci ha determinati a giudicare come a respirare e a sentire”; la natura che, per l’appunto, “è sempre troppo forte per principio”.

Dall’analisi della vita morale scaturisce invece la logica della simpatia che Hume elabora per spiegare la vita di relazione tra gli uomini: essa appare ai suoi occhi come una forza “ancora più sorprendente e straordinaria” dei principi dell’intelletto che permette di entrare in comunicazione con gli altri, condividendo con loro passioni e impressioni. Il filosofo scozzese sottolinea inoltre l’estrema naturalità e umanità dell’etica fondata sulla simpatia, fortemente connaturata nell’uomo: “E che bisogno abbiamo di andare alla ricerca di sistemi astrusi e remoti, quando se ne presenta a noi uno di così ovvio e naturale? Abbiamo forse qualche difficoltà a comprendere la forze della benevolenza e del sentimento di umanità? O a concepire che la semplice vista della felicità, della gioia, del benessere reca piacere, mentre quella del dolore, della sofferenza e dell’affanno genera inquietudine?

Hume dimostra che alla base delle relazioni umane e delle virtù risiedono dei naturali sentimenti di simpatia verso le gioie e i dolori degli altri uomini che poi assumono, nelle diverse contingenze storiche, la forma di criteri generali di giustizia, di rispetto dei patti e di obbedienza nei confronti delle istituzioni sociali. Un tale ragionamento ‘scettico’ porta Hume a depurare la morale da qualsiasi traccia di mero moralismo, di autoumiliazione o di mortificazione dell’anima e del corpo: la morale, afferma Hume deve togliersi “l’abito del lutto” con cui l’hanno rivestita gli uomini.

Il filosofo scozzese deduce quindi che la moralità non è una scelta della ragione ma un dato di fatto che riguarda il sentimento: “risiede dentro di te, non nell’oggetto”. È un’esperienza soggettiva che si concretizza però nella comunicazione con l’Altro: l’interesse personale diventa comune all’umanità intera e tutti gli uomini ricevono piacere da cose che sono in accordo con la giustizia. Il senso dell’onore e del dovere sono altri artifici che derivano da questa relazione. Ciò che per Hume rende fertile il deserto dell’intelligenza è, ancora una volta, la simpatia, sostenuta dall’abitudine e dall’immaginazione, dall’educazione e dall’arte politica. In quest’ottica, utilità e piacere, note dominanti della letteratura etica illuministica fino a Kant, in Hume assumono un aspetto sintomatico piuttosto che esseri imposti come principi di ciò che è bene per la natura umana. Afferma Hume: “Utile , ma per chi? Per l’interesse di qualcuno, certamente. Per l’interesse di chi, dunque? Non soltanto per il nostro; infatti la nostra approvazione spesso di estende oltre l’ambito del nostro interesse. Se, dunque l’utilità è fonte di sentimento morale e se questa utilità non si considera sempre con riferimento a noi stessi, ne segue che tutto ciò che contribuisce alla felicità della società si raccomanda direttamente alla nostra approvazione e alla nostra buona volontà. Questo è un principio che rende ragione, abbastanza ampiamente, dell’origine della moralità”.

Il significato delle qualità morali di una persona risiede nella loro utilità per la vita sociale, con una valenza estremamente pragmatica. Scopo della morale è la felicità del maggior numero di uomini e la maggior parte delle virtù- e dei relativi vizi – implica un’idea di bene comune. La giustizia, di conseguenza, si può considerare la prima delle virtù e si fonda sull’immediata partecipazione di intenti e di bisogni che Hume chiama “simpatia”, assimilata in seguito da Smith all’interno del suo pensiero.

Le caratteristiche antirazionalistiche della filosofia morale di Hume caratterizzano il suo pensiero anche in ambito politico. Il filosofo scozzese appartiene alla corrente storiograficamente definita liberalismo evoluzionistico, maggiormente attenta alle dinamiche di matrice storico-culturale e contraria ad un’enfatizzazione, oltre misura, del ruolo della ragione. In particolare, David Hume dà al liberalismo evoluzionistico una piena giustificazione filosofica, sia sul piano antropologico sia sul piano sociale. Egli non ricava da una natura umana intesa come ragione la molteplicità dei diritti naturali (giusnaturalismo) e considera le tesi contrattualistiche limitate dal loro astrattismo e universalismo, per cui producono un’immagine ingegneristica della convivenza umana non aderente alla realtà. Hume non concepisce le relazioni umane come il risultato di accordi prestabiliti in maniera esplicita da contraenti razionali, ritiene, al contrario, che esse seguano andamenti fortuiti, non prevedibili in anticipo. Il filosofo scozzese mira così ad acquisire una conoscenza realistica della natura umana che sia il risultato di un atteggiamento descrittivo, deduttivo e sperimentale: ciò permette di non confondere l’essere con il dover essere, allontanandosi da posizioni logiche, astratte e precostituite. Sulla base di tali premesse Hume elabora una visione convenzionalistica della vita sociale, per la quale l’uomo, pur non avendo dentro di sé l’idea innata di giustizia, sperimenta i vantaggi della vita di relazione: “Osservo che è nel mio interesse lasciare a un altro il possesso dei suoi beni, purché egli agisca nello stesso modo nei miei confronti. Anche l’altro è consapevole di un analogo interesse a regolare la sua condotta. Quando ci si esprime reciprocamente questa consapevolezza nell’interesse comune, così che essa risulti nota ad entrambi, allora essa produce una risoluzione a un comportamento adeguato. E questo, di certo, si può chiamare abbastanza propriamente una convenzione o un accordo tra di noi, anche se manca qualsiasi promessa”.

La convenzione humiana non corrisponde quindi  ad un ‘patto’ o ad una ‘promessa’ ma ad ‘una reciproca consapevolezza dell’interesse comune’, in base alla quale ogni individuo che appartiene alla comunità sociale ‘percepisce’ che è nel proprio interesse astenersi dall’appropriazione dei beni altrui, ipotizzando che gli altri assumano lo stesso comportamento. Hume chiarisce il concetto con l’esempio della barca: due uomini su una barca apprendono dall’esperienza che è nell’interesse di entrambi remare nella stessa direzione, secondo un certo ordine e con una certa regolarità. Un fatto questo che non necessita di alcuna promessa ma è semplicemente legata ad una situazione concreta, radicata nell’esperienza: “Due uomini che sospingono una barca a forza di remi lo fanno in virtù di un accordo o di una convenzione, sebbene essi non si siano dati alcuna promessa reciproca. La regola della stabilità del possesso non solo deriva dalle convenzioni umane, ma sorge inoltre gradualmente e acquista forza attraverso un lento progresso, e in virtù di una reiterata esperienza degli inconvenienti che sorgono dal trasgredirla”.

In questo scenario la libertà non viene intesa come un diritto naturale ma si rivela un valore derivato, frutto dell’utilità del vivere civile. La libertà è “libertà sotto la legge”, ossia il prodotto di un insieme stabile di libertà politiche, in grado di garantire agli individui la sicurezza della loro proprietà. Hume vede nella ‘convezione’ il meccanismo che determina il costituirsi della società prima e del governo poi: quando gli interessi molteplici e conflittuali degli esseri umani convergono, la possibile stabilità che ne deriva è qualcosa che può avvenire o non avvenire –  “tutto ciò che è può non essere”, afferma Hume – quando si realizza è il risultato di una convenzione che ha avuto successo.

La libertà dell’individuo, politicamente intesa, non è la premessa bensì la conclusione di una riflessione più generale sugli obiettivi che una società si prefigge e, in maniera più specifica, sugli obiettivi di un governo equo, in grado di salvaguardare la giustizia della vita sociale. Le stesse istituzioni, secondo Hume, originariamente non fanno parte della vita sociale ma vengono ‘inventate’ per rispondere a dei bisogni che gli individui ‘percepiscono’ come necessari. La giustizia ad esempio è un’invenzione umana che si rivela un’efficace risposta dell’immaginazione a ciò che è, nello stesso tempo, un bisogno e una difficoltà: conciliare l’egoismo istintivo degli individui con l’oggettiva scarsità e precarietà dei beni a disposizione.

La costruzione della società e delle sue istituzioni corrisponde per Hume ad un processo graduale che comporta continue correzioni e il cui fine è un perenne e progressivo miglioramento. In un tale scenario ‘evolutivo’, le istituzioni nascono da un’esigenza ‘sentita’ come primaria e perdono gran parte della propria artificiosità per tramutarsi in un naturale prolungamento dell’azione umana. Questo passaggio fondamentale del pensiero di Hume permette di comprendere come le valutazioni politiche debbano essere inquadrate all’interno della dottrina morale, che risiede nell’uomo (io morale) e corrisponde a “ciò che ci è sempre intimamente presente”.

La riflessione del filosofo sull’io passionale, poi morale e infine politico incarna, in un certo qual modo, i valori dell’individualità e della libertà in maniera più convincente delle astratte alternative razionali di stampo cartesiano che pretendono di standardizzare gli individui in virtù della loro razionalità, soffocandone la natura umana essenzialmente narrativa e quindi in continuo cambiamento.

In pratica, il metodo riflessivo humiano mira a correggere la condizione umana dall’interno, facendo tesoro dell’esperienza diretta di individui agenti e riflessivi che interagiscono tra loro in situazioni contingenti, e riconducono l’analisi dei problemi sociali ed economici ai fattori concreti estrapolati dalla lettura della situazione storica.

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