“Robberto!” Con due ‘b’ e un tono affettuoso, un viso commosso e la mano sinistra sventolante la busta con scritto il suo nome. Correva l’anno 1999, durante la cerimonia degli Oscar, quando Sophia Loren premiava la meravigliosa interpretazione di Roberto Benigni nella Vita è bella, momento d’indimenticabile emozione, per i protagonisti, per l’Italia, per gli Italiani.

Un passaggio di testimone, dall’opulenta bellezza mediterranea della Loren, ‘ciociara’ ‘ammaliatrice del boom’, ‘casalinga dal cuore dolce’ e soprattutto simbolo del cinema italiano degli anni ’50 e ’60, alla nuova comicità drammatico/amarognola della fine degli anni ’80, con Troisi, Benigni e Verdone. Sono passati undici anni da quegli attimi eterni, da quel saltellare fanciullesco tra i grandi di Hollywood, da quel meritatissimo premio, dall’ultimo Oscar conferito a un film italiano (oltre a quello per il miglior protagonista e per la miglior colonna sonora). Ora non si tratta di rifilare la solita critica contemporanea del cinema italiano tout court, né tantomeno di compararlo, nell’ambito di una mera operazione amarcord, alla nostra età d’oro, ma di riflettere in maniera essenziale sul mutamento di un’epoca, in cui politiche artistico-culturali influenzano negativamente la settima arte.

E’ sciocco e superficiale parlare di crisi generale del cinema (la quantità di pellicole prodotte è progressivamente in aumento così come il numero di spettatori/cinefili), ma è più che plausibile parlare di indolenzimento delle idee, di stagnazione, di evidente impasse, se non di soffocamento di nuove concezioni ed estetiche. Un immobilismo che, però, non è tanto frutto di un’assenza di meritevoli cineasti e tecnici del cinema (certo non esistono più le scuole di cinema, le correnti, le vague, i movimenti cinematografici, quali il Neorealismo o la Commedia all’italiana, ma pullulano gli autori), quanto di una mancanza totale di politiche di ricerca e di valorizzazione del patrimonio, di festival e di premi destinati alla scoperta di nuovi e giovani talenti made in Italy e alla loro pubblicizzazione (nonostante la volgarità del termine), come accade in Francia con i César. E non è un caso se negli ultimi sette anni, tre dei film destinati a rappresentare l’Italia e prontamente scartati, sono stati il confusionario Baaria e La sconosciuta di Giuseppe Tornatore, oltre al mediocre Io non ho paura di Gabriele Salvatores, non proprio due aitanti giovincelli.

Benedetta commissione che questi film li sceglie, con i suoi protetti e i suoi abbagli, che candida il retorico Terraferma di Emanuele Crialese – subito rispedito al mittente – e lascia a casa Habemus Papam di Nanni Moretti con un notevole Michel Piccoli e non considera nemmeno This Must Be The Place, road-movie un po’ compiaciuto, ma che sul red carpet avrebbe fatto la sua bella figura.

Eccezion fatta per Gomorra e La stanza del figlio, gli ultimi undici anni sono stati caratterizzati da un susseguirsi di scelte singhiozzanti (nel 2006 ci siamo presentati con il banalissimo La bestia nel cuore di Cristina Comencini) e di decisioni imbarazzanti. Si dovrebbe pensare meno alle chiacchere e alle polemiche – come la penosa querelle per il festival di Roma sul Müller o non Müller – e più a un sano ripensamento della nostra politica culturale, mano nella mano con una spinta valorizzatrice.

© Rivoluzione Liberale

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