Qualche giorno fa Teodoro Klitsche de la Grange pubblicava sul sito “Carlogambescia metapolitics” un suo intervento sulla proposta del governo di pagare i creditori con titoli di Stato.
Il progetto che ha precedenti “analoghi”, ha incontrato reazioni variabili: alcune improntate a prudenza, altre a confusione burocratica, fino a quelle ironiche degli “sgommati” su Sky. Abbiamo allora chiesto all’autore di scrivere per il nostro giornale un breve approfondimento al suo scritto che riportiamo in coda allo stesso articolo in forma di “postilla”.
Non credo che Carlo Gambescia sia stato colpito da improvviso e incontenibile amore verso il governo tecnico, come la maggior parte della stampa italiana; comunque una delle novità introdotte dal decreto mi è particolarmente piaciuta (aggiungo subito di non essere innamorato: altre non mi hanno suscitato lo stesso sentimento).
Questa è la possibilità – evidenziata dalla stampa – di poter pagare i creditori della P.A. (su richiesta dei medesimi) con titoli di Stato; alla quale vorrei esternare due apprezzamenti, chiedendo fin d’ora scusa ai lettori per le castronerie che scriverò dato che, non essendo un economista, navigo “a vista” (spero meglio del comandante della “Concordia”).
La prima: pagando debiti con titoli e non con moneta si ottengono diversi benefici, sia per i creditori che per i debitori (le pubbliche amministrazioni). Il più importante dei quali consegue al male principale della Repubblica: la presenza di una burocrazia poco efficiente e spesso, guicciardinianamente, orientata al “particulare” (del burocrate). Per cui la scarsità del mezzo di pagamento, cioè del denaro stanziato nei bilanci, diventa la scusa per selezionare tra i creditori quelli più graditi all’Amministrazione (you remember lady ASL?), disposti a ringraziare concretamente l’ “ufficiale pagatore”. Ma non è solo questo (problema a un tempo di par condicio e di moralità pubblica): gli è che molto spesso la “mora” cioè l’inadempienza del debitore (e l’inefficienza della giustizia) consente sì di pagare con molto ritardo, ma a costi maggiorati (interessi sempre, spesso rivalutazione, danni ulteriori, spese legali). Per cui quello che è un buon affare per il burocrate si rivela spesso mediocre (o cattivo) per l’amministrazione.
Vero che qualcuno, come Carlo, mi obietta che a guadagnarci saranno le Banche, scontando i titoli: sicuramente è così, ma allo stato possono guadagnarci assai di più, aprendo (se loro aggrada) credito a interessi ben superiori a quelli praticati per lo sconto di titoli, alle imprese in difficoltà per i ritardi. Per cui l’interesse delle banche, che trovano sempre nelle istituzioni tutori amorevoli, è salvaguardato da tale sistema, ma – forse – non incrementato.
La seconda: una manovra del genere vuol dire porre accanto al mezzo di pagamento primario, cioè la moneta, un altro mezzo di pagamento: il titolo di Stato. Il che, scusatemi per l’ignoranza economica, significa svincolarsi (in parte) dall’euro (e dalla supremazia tedesca), non essendo più necessario – almeno nell’immediato – essere provvisti di molti euro per pagare. E, peraltro mi pare meno condizionante politicamente avere come creditori tanti italiani che qualche grosso fondo, o magari il FMI, il quale, se presta quattrini, non lo fa sicuramente con spirito francescano.
In sostanza mi sembra che questa soluzione abbia diverse analogie con quello che fece Hijalmar Schacht, Ministro dell’economia di Hitler, il quale trovandosi negli anni trenta a dover risollevare la Germania dalla grande depressione e contemporaneamente a finanziare il programma di opere pubbliche (e di riarmo) tedesco, pensò di pagare i creditori del Reich con le cambiali MEFO, accettate da tale società, garantite dallo Stato e tratte dai fornitori del medesimo (per merci o servizi già resi o da rendere in breve al Reich). Cambiali rinnovabili a lungo termine (cinque anni) e scontabili in ogni momento presso la Reichsbank. Scriveva Schacht che le cambiali MEFO erano “per così dire denaro messo a frutto. Non occorreva tenere la cassa; in essa si potevano mettere le cambiali MEFO” e che “La concessione di credito sotto forma di cambiale, invece di conto corrente o in moneta contante. assicurava un rapporto fra denaro e produzione”. I risultati di queste come di altre misure di Schacht, furono più che positivi, ma poco se ne discute perché, come si sa, i nazisti erano brutti, cattivi e “cretini”. Il brutto non c’interessa, il cattivo lo condividiamo in pieno, ma dissentiamo sul “cretino”. Se lo fossero stati non avremmo rischiato (come scriveva un liberale ebreo come Raymond Aron) che vincessero la seconda guerra mondiale. E – almeno parzialmente – da queste misure, come anche da quelle, dopo accantonate, dell’Italia fascista (IRI docet) e del new deal di Roosevelt, tutte generate dalla crisi del ’29, occorre trarre insegnamento su come superare quella attuale.
Postilla:
Leggo tra le perplessità alla proposta governativa che l’emissione dei titoli pubblici necessari a pagare – in forma alternativa – i creditori (o i soli “fornitori”) della P.A. aumenterebbe il debito dello Stato. Chi ha espresso tale obiezione, ha del “debito” una concezione meramente “documentale”, formale e nient’affatto giuridica. Ci spieghiamo: da qualche millennio si denomina debitore l’obbligato ad eseguire una prestazione nei confronti di un altro soggetto, chiamato creditore. Chi ha dei dubbi può leggerlo nel Corpus juris (D 108, L, 16; D. 213, L, 16).
Invece nella visione burocratica-contabile criticata, il “debito pubblico” consisterebbe nell’importo totale dei titoli di Stato emessi (anche) perché il debito esiste e va pagato in contanti, finanziandone l’emissione con i titoli. Ma il tutto non ha nulla a che vedere con l’esistenza del debito, il quale esiste (purtroppo) ed è tale indipendentemente dal fatto che sia emerso (e che siano emessi titoli per estinguerlo) o che continui ad essere sommerso, cioè esistente ma non “confessato”.
E’ inutile dire che tale seconda concezione, è in sostanza una forma di “illusione finanziaria” ed è stata quella più coltivata nel periodo di (progressiva) decadenza della repubblica, in particolare negli ultimi vent’anni. Di fronte alla mole del debito sommerso, che va a sommarsi a quella del debito emerso si è ricorsi ai più grossolani espedienti per occultarlo e/o ridurne la percezione dell’ammontare: dall’allungare (o sabotare) i tempi dell’esecuzione giudiziaria, alle direttive amministrative ai Giudici (?!) su come conteggiare i debiti (in danno ai creditori, s’intende), nonché agli stessi uffici dell’amministrazione per dilazionare i tempi dei pagamenti; a promulgare leggi che non prevedono come calcolare le spese che provocano e così via. La casistica è varia e copiosa: la fantasia che manca a burocrati e governanti nello scovare i mezzi per ridurre il debito (che non siano quelli usuali: tasse, tasse, e ancora tasse), si è esercitata e ha dato i frutti migliori nell’occultarlo.
La buonanima di Puviani ne avrebbe materia per arricchire con diversi capitoli il suo libro più noto. E un partito liberale ha ragioni serie per combattere queste pratiche, contrarie a una finanza oculata, ad un’amministrazione corretta e all’etica pubblica. E che, praticate da ambo i “poli”, anche se con maggiore assiduità da quello di centrosinistra, hanno creato una massa di creditori insoddisfatti, i quali per lo più sono quelli non “amici” dei governanti e burocrati. Perché se è vero il detto che le leggi sono uguali per tutti, ma per gli amici s’interpretano, lo è anche l’altro che di quattrini non ce n’è per tutti, ma per gli amici si trovano.
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