“Ogni anno oltre 100 miliardi di dollari di tasse e imposte sono evase utilizzando conti offshore. Non è tollerabile. Dunque, da questo momento si dovrà operare per ricondurre queste risorse entro i parametri corretti della contribuzione fiscale dovuta”.
Era il 2008 quando, con queste parole, subito raccolte dal neo-eletto Presidente statunitense Barack Obama, la Commissione Finanze Senato degli Usa vibrava il primo significativo colpo alla finanza svizzera, che gestisce il 27% dei capitali offshore del mondo, mettendo sotto accusa il diritto di riservatezza bancaria elvetica, tacciato di aver costituito per anni il maggiore lasciapassare ai capitali illegalmente nascosti al fisco mondiale in terra svizzera. Da allora si sono susseguiti numerosi tentativi di accordi, promesse e minacce reciproche, culminate con l’azione diretta nei confronti del colosso UBS che nell’agosto 2009 fu costretto a fornire i nomi di quasi 4500 clienti americani all’Internal Revenue Service, nonché a versare 780 milioni di dollari di risarcimento. Ma ancora oggi il braccio di ferro tra Washington e Berna è lontano dall’essere concluso. Nell’ultima settimana di gennaio gli Stati Uniti hanno avanzato la richiesta di svelare i nomi non solo delle decine di migliaia di americani correntisti nelle banche svizzere, ma anche quelli dei manager, consulenti e impiegati di tali banche che abbiano loro suggerito strategie per evitare il pagamento delle imposte in patria. Si parla di oltre trecento banche per migliaia di miliardi di dollari da scrutare al microscopio.
La risposta giunta da Berna è tuttora provvisoria e instabile: i nomi sono nero su bianco, ma criptati fino al raggiungimento di un accordo soddisfacente per entrambe le parti, come ha sottolineato il ministro delle Finanze Eveline Widmer-Schlumpf, di ritorno da una discussione faccia a faccia con il segretario al Tesoro Usa, Tim Geithner. La questione è chiaramente delicatissima, perché se da un lato non è più possibile sorvolare sullo spostamento di tali risorse verso i paradisi fiscali mentre in patria i cittadini comuni sono tartassati nel tentativo di sopravvivere alla crisi globale, dall’altro non esiste una legislazione sovranazionale che dia ragione alla presa di posizione americana, che con un atto di forza unilaterale va a ledere le leggi di una Nazione sovrana e indipendente come la Svizzera (senza contare che l’origine della crisi è stata in prima istanza legata alla finanza made in Usa).
Nel frattempo in Europa, che nel 2005 ha ottenuto l’impegno formale di prelevare un’imposta del 35% sugli interessi dei capitali dei residenti comunitari correntisti in Svizzera, sia Londra che Berlino hanno deciso di formulare autonomamente un accordo bilaterale con Berna (in teoria vietato sulle materie coperte dalla legislazione comunitaria) che suona molto prossimo al tanto contestato scudo fiscale berlusconiano, e che rischia, secondo gli analisti, di tradursi perfino in uno stimolo ulteriore alla fuga dei capitali, che al più verrebbero tassati sugli interessi tanto quanto in Germania, senza sanzioni aggiuntive e senza la pubblicazione dei nominativi, lasciando di fatto inalterato il segreto bancario.
In tutto questo il Governo italiano ancora non presta orecchio alle richieste, provenienti da quasi ogni parte della politica interna, di trovare un accordo a nostra volta indipendente da quelli europei, rimandando una decisione univoca nel tentativo di comprendere la posizione definitiva di Bruxelles sugli accordi inglese e tedesco, in vista di un probabile esame di conformità da parte della Commissione. Una condotta che fa indubbiamente discutere alla luce dei sacrifici richiesti ai cittadini italiani, ma che si pone in linea con la volontà europea (e americana) di mettere un termine al modus operandi elvetico senza accontentarsi, come altri hanno scelto di fare, delle pur molto succulente briciole e mantenere lo status quo.
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