Berlino – Il titolo scelto dal nostro giornale la scorsa settimana (“Berlinale 2012, applausi per i Taviani”) deve aver innescato il meccanismo della buona sorte, che ha portato proprio il film dei due fratelli toscani (San Miniato, Pisa) – quasi gemelli (Paolo del 1931, Vittorio del 1929) – a trionfare (con l’aggiudicazione del mitico Orso d’Oro) al Festival Internazionale del Cinema che si svolge ogni anno nella Capitale della Repubblica Federale di Germania. L’affermazione, che somiglia molto a quelle soddisfazioni che di tanto in tanto il nostro Paese si toglie in diverse manifestazioni sportive (vengono subito in mente i Mondiali di calcio), è stata quella del film drammatico Cesare deve morire (nato sulla scia di alcuni lavori teatrali e che giungerà nelle sale italiane dai primi di marzo), girato all’interno del carcere romano di Rebibbia con il coinvolgimento degli stessi detenuti. Libero adattamento della tragedia di Shakespeare, realizzato col susseguirsi di scene a colori e in bianco e nero, prova a far rivivere allo spettatore il dramma della carcerazione. E riesce molto bene in questo ambizioso tentativo. Sabato 11 febbraio – al secondo giorno della kermesse – l’opera aveva ottenuto un grande successo da parte della critica straniera e del pubblico che si era lasciato andare ad applausi scroscianti. Oggi, quella giornata di soddisfazione e speranza, si è trasformata in un exploit entusiasmante, visto e considerato che negli ultimi tempi il nostro cinema, all’estero, non è riuscito a raccogliere quasi nulla se non poche briciole. Si pensi che qui a Berlino il successo italiano giunge dopo la bellezza di ventuno anni (nel 1991 l’Orso andò a Marco Ferreri con La casa del sorriso).

“E’ difficile parlare in questi casi ma sono davvero contento, perché la giuria ha deciso in armonia e non capita sempre che questo accada”, ha detto Vittorio Taviani, mentre riceveva l’Orso d’Oro. Da parte sua Paolo ha riservato un grazie “alle parole sublimi di Shakespeare” perché anche attraverso esse “questi detenuti sono tornati alla vita e” anche “a loro va il nostro saluto”. Da Paolo Taviani ancora un ringraziamento alla giuria e soprattutto al presidente Mike Leigh, regista e sceneggiatore britannico. “Abbiamo avuto fortuna – ha aggiunto Vittorio – ad avere lui come” ‘capo’ dei giurati, “non sapete quanto amiamo i suoi film”. Il lungometraggio dei ‘Taviani brothers’ narra la storia di un gruppo di reclusi che si prepara a interpretare sul palcoscenico la tragedia di Shakespeare, Julius Caesar. Prima tappa: i provini; seconda tappa l’incontro col testo, il linguaggio universale di Shakespeare aiuta infatti i detenuti-attori a immedesimarsi nei personaggi. Il percorso è lungo: ansie, speranze, gioco. Lo stupore e l’orgoglio per l’opera non sempre li liberano dall’esasperazione carceraria tanto che i detenuti arrivano a scontrarsi l’uno con l’altro, mettendo in pericolo lo spettacolo.

A decretare una piena riuscita italiana in terra tedesca è stata anche la pellicola Diaz. Non pulire questo sangue di Daniele Vicari, che si è aggiudicata il secondo posto nel ‘Premio del Pubblico’. La storia racconta le vicende legate al ‘Summit G8’ di Genova del luglio 2001 e all’irruzione delle forze di polizia nelle scuole Diaz e Pascoli. Grazie a un attento studio di materiale di repertorio e di documenti originali il regista ha ricostruito i fatti in modo molto fedele alla realtà. Il film – che ha beneficiato della partecipazione di due fra i migliori attori nostrani, Elio Germano e Claudio Santamaria – è stato accolto con grande entusiasmo dal pubblico del Festival e uscirà nelle sale italiane il prossimo 13 aprile.

Il secondo premio in assoluto l’ha portato via Just the wind, del cineasta Bence Filegauf. Una denuncia dell’esistenza carica di soprusi e vessazioni cui sono costrette le popolazioni rom, che si basa su avvenimenti di cronaca (nulla di inventato, quindi) in Ungheria. L’Orso d’argento è andato a Christian Petzold (con Barbara) lavoro che rievoca il clima della Germania anni Ottanta, con il suo peso oscuro di sospetti, desideri repressi, vite spezzate, quando la gente, ha detto l’autore, “viveva in un universo che stava morendo”. La migliore attrice è Rachel Mwanza, giovane protagonista del duro Rebelle, cronaca sospesa tra sogno e realtà, dell’epopea drammatica di una ragazzina trasformata in soldato e costretta a combattere sul fronte della guerra civile, in Congo. Il miglior attore è Mikkel Bo Folsgaard, il re stravagante del film danese A royal affair, mentre il favorito White deer plain di Wang Quan’an s’è dovuto accontentare del riconoscimento per il miglior contributo artistico. Bruciante risultato, invece, per Miguel Gomes che ha sperato fino all’ultimo minuto di sparigliare con il suo Tabu, quasi una risposta portoghese a The artist. Per Sister, della svizzera Ursula Meier, una menzione speciale della giuria.

A Berlino sono anche stati assegnati i ‘Teddy Awards’, i premi riservati al cinema a tema omosessuale. Nelle tre categorie – miglior film lungometraggio, più convincente documentario e migliore cortometraggio – sono stati premiati rispettivamente Keep the Lights on di Ira Sachs, Call Me Kuchu di Malika Zouhali-Worrall e Katherine Fairfax Wright e Loxoro di Claudia Llosa. Il premio speciale della giuria è andato al film francese Jaurès di Vincent Dieutre. Infine, il premio del pubblico è stato vinto da Parada di Srđjan Dragojevic.

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