L’entrata di Walter Veltroni su Bersani è da ammonizione, non proprio da cartellino rosso ma poco ci manca. E’ comunque un fallaccio per tempi e modalità. Ora che il dibattito sulla riforma del lavoro è arrivato alla resa dei conti, il clima nel Pd si fa sempre più arroventato. Ne è perfettamente conscio il suo segretario, Pierluigi Bersani, alle prese con i bollori della Camusso (Cgil), quest’ultima protagonista di uno scambio di battute al vetriolo con la controparte sindacale degli industriali (Marcegaglia).
Poteva il fondatore del Partito Democratico, l’uomo del “Se pò fà” (traduzione casereccia del più famoso “Yes, we can” di Obama), starsene con le mani in mano in questa fase? Esaurito il mal d’Africa e terminata la vena di scrittore, l’ex sindaco di Roma è tornato a rimbrottare i compagni di partito nel momento più delicato, a un passo dalle amministrative e a un tiro di schioppo dalle elezioni del 2013. Una mossa astuta, probabilmente controproducente. Veltroni con il suo intervento-intervista su Repubblica solleva macigni che lascia precipitare indisturbato nell’agitato stagno ‘piddino’, la cui quiete è solo un ricordo visti i risultati (imbarazzanti) venuti fuori dalle Primarie.
Primo sasso: “Sciogliere tutte le correnti interne al partito, rilanciare l’attività politica mettendo a frutto il riformismo di Monti per avvicinare la ‘rivoluzione democratica’ che deve essere l’obiettivo del Pd”. Secondo sasso (articolo 18): “Non fermarsi di fronte ai santuari del ‘no’ che hanno paralizzato l’Italia per decenni. Credo che finora il governo Monti stia realizzando una sintesi fra il rigore dei governi Ciampi e Amato e il riformismo del primo governo Prodi”. Terzo sasso, pardon asteroide: “Si discute di liberismo e di ritorno al socialismo. Invece siamo fuori dal Novecento. Non vorrei che Casini facesse, in un nuovo centrodestra, l’operazione che noi avevamo immaginato per il centrosinistra. Perderemmo così un’altra occasione, forse l’ultima, di far conoscere all’Italia una vera e profonda stagione di riforme”. In parole povere, un’altra busta (firmata) con proiettili recapitata al segretario del Pd.
Che il Governo Monti possa essere definito riformista appare inequivocabile, resta da stabilire se sta bene anche alla ‘base’ del partito. Pare di no, a cominciare da Stefano Fassina, il responsabile economico dei democratici, che è apparso piuttosto contrariato dell’uscita di Veltroni. Vendola, manco a dirlo, ha confessato di essere ‘trasecolato’, ma intanto dal Tavoliere pregusta delle Primarie-scalata per esautorare Bersani. D’altronde, se è vero che dopo la vittoria di Marco Doria all’ombra della Lanterna le quotazioni di Sel sono in netto rialzo, è altrettanto naturale che il presidente della Puglia sia in preda a ‘masturbazion’i e a fantasie tipicamente preelettorali.
Ancora non è chiaro se la foto di Vasto sia stata riposta in un cassetto o, peggio ancora, girata per non mettere in imbarazzo lo zoccolo duro. Bersani ha candidamente ammesso che se l’accordo con le parti sociali dovesse saltare in aria, potrebbe anche togliere l’appoggio a Monti. Sarebbe una mossa di una coerenza inattaccabile e insieme di una scarsa lucidità (lungimiranza?). Il Premier, dal canto suo, vive una fase di straordinario successo, con i partiti che se lo litigano tirandogli la giacchetta da destra e sinistra, passando per il centro. Altro che tecnico fuori dalla politica, è la politica a volerlo trascinare dentro.
© Rivoluzione Liberale
