E’ il breakfast time a Chester Square. Tutto è pronto sulla tavola. Uova, toast, burro, caffè e il ‘conservatorissimo’ The Times. L’ottantenne Margaret Thatcher discute con il marito defunto Denis, seduto di fronte a lei, sull’aumento del costo del latte, lievitato a 49p. Figlia di un droghiere ultrareligioso e dai saldi valori morali, è consapevole dell’importanza delle piccole cose. La risposta di Sir Thatcher è ironicamente evocativa, e racchiude in nuce l’intera vita politica della Lady di ferro: “We have to economise”. Dobbiamo risparmiare.

Inizia così nel film intitolato The Iron Lady – che domenica notte (26-27 febbraio) è valso l’Oscar come miglior protagonista femminile a Meryl Streep – l’esercizio di flashback e ricordi, d’interminabili ore di veglia e di profondi deliri, di voli e tuffi nel passato da un presente irriconoscibile e indefinibile, scientemente condotto dalla regista inglese Philippa Lloyd, per narrare la travagliata vita dell’ottuagenaria Margaret Thatcher (Streep, appunto), alle prese con il morbo di Alzheimer che l’ha colpita quando ne aveva ancora sessanta e decideva definitivamente di abbandonare la sua trentennale carriera politica.

Una carriera iniziata nel lontano 1979, periodo in cui il Regno Unito era in preda ad un grave affossamento economico e godeva di una scarsa credibilità agli occhi della comunità internazionale, al quale la granitica leader del Partito Conservatore rispose a colpi di tagli alla spesa pubblica e austerità, aumento dell’IVA e liberismo economico, sulla scia dell’America reaganiana. Inamovibile dai propri ferrei principi, inflessibile, filo-monetarista all’estremo e antesignana per antonomasia delle manovre ‘lacrime e sangue’ che causarono, durante i suoi tre mandati, il raddoppiamento della disoccupazione e la chiusura di numerose miniere, violente sommosse e quotidiane azioni di picchettaggio, oltre a esasperare l’odio con la sinistra laburista. Senza dimenticare la dolorosa quanto controversa guerra delle Falkland, tra il suo Regno Unito e l’Argentina, che determinò un acuto ritorno del nazionalismo e la sua rielezione nel 1983.

Vi è tutto ciò nell’ultra-atteso ‘bioepicone’ della Lady di ferro, che tra momenti edulcorati, ma senza troppo zucchero, e affilati fendenti scagliati all’ottantenne Thatcher, riesce ad equilibrare, a dosare, senza cedere il passo alla facile condanna o alla trasposizione agiografica. Alternando le immagini d’archivio della vera Margaret Roberts ai deliri allucinogeni dell’eccezionale Meryl Streep, truccata e perfezionata per una delle sue migliori interpretazioni.

La bravura dell’attrice statunitense, confermata dall’impressionante lavoro sull’accento british thatcheriano, è quasi imbarazzante, talmente è smisurata. Gli spettatori usciranno dalla sala senza parole, la vera Thatcher con qualche allucinazione in più.

© Rivoluzione Liberale

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