Gaetano Salvemini (1873-1957), uomo politico e storico italiano, si distingue per la sua visione estremamente laica della vita e della politica. Nel secondo dopoguerra è un convinto oppositore della Democrazia Cristiana sostenendo, al contempo, l’abrogazione del Concordato e la difesa della scuola pubblica. Strenuo sostenitore del suffragio universale e della soluzione della questione del Mezzogiorno, nel 1908 aderisce al Partito Socialista promuovendo, dall’interno, le sue posizioni meridionaliste, tese all’abolizione delle tariffe doganali e del latifondo in un programma di collegamento tra operai del Nord e contadini del Sud. Ma già nel 1910 Salvemini attacca il partito, o meglio il movimento cooperativo accusato di essere fonte di corruzione e maggiore ispiratore del ‘ministerialismo’ socialista. In seguito al mancato successo dell’opzione ‘turatiana’ sul rinnovamento socialista, nel 1911 decide di lasciare definitivamente il Partito Socialista e alla fine dell’anno fonda L’Unità, conducendo dalle pagine della sua rivista una campagna per la formazione di un’opinione pubblica laica e progressista, nel segno di un socialismo riformista in contrapposizione al socialismo di stampo rivoluzionario del tempo e a quello burocratico ufficiale.
Dopo l’avvento di Mussolini al potere (ottobre 1922), Salvemini, che da alcuni anni insegnava all’Università di Firenze, continua a opporsi al fascismo trionfante. In seguito, venute a mancare le condizioni per un insegnamento veramente libero, si trasferisce in Francia, con l’aiuto di Nello Niccoli e del gruppo del ‘Non mollare’, poi in Inghilterra e infine negli Stati Uniti, ad Harvard, dove insegna Storia della civiltà italiana. A Londra, a Parigi e negli Stati Uniti continua la sua battaglia politica e culturale contro il fascismo; scrive articoli e tiene conferenze per spiegare al mondo libero la reale natura del regime fascista. Dopo vent’anni trascorsi negli Stati Uniti, nel 1949, grazie alla tenace battaglia degli amici Piero Calamandrei ed Ernesto Rossi, il Parlamento della Repubblica Italiana restituisce a Salvemini la cattedra all’Università di Firenze. Il settantaseienne professore di Storia torna così definitivamente in Italia e riprende le sue lezioni nella città che lo aveva visto studente. E’ una grande vittoria morale.
Gaetano Salvemini non smette mai di denunciare gli antichi mali italiani: le inefficienze, gli scandali, le tremende lungaggini di una giustizia che, per quanto democratica e repubblicana, continuava a favorire i potenti. Lamenta soprattutto il fallimento della scuola pubblica, dominata dal nozionismo e incapace di formare delle vere coscienze critiche.
Gaetano Salvemini è un liberalista radicale con il cuore laico: un atipico socialista nella prima fase della sua carriera politica, di certo non conformista, un democratico da sempre. Sanguigno e polemico, combatte fino alla fine la sua disputa ideologica e conduce le sue battaglie politiche con passione vulcanica. Un temperamento deciso il suo, fonte di un impegno concreto, sia nello studio sia in politica. Il pensiero di Salvemini, anche per la sua concretezza, è più vicino a quello di Einaudi e molto lontano da quello di Croce. Allergico alla filosofia, come amava sottolineare, Salvemini è avverso a ogni astrattezza, per lui esistono solo fatti e problemi concreti (‘problemismo’ e ‘concretismo’ sono i due termini con cui si indica molto spesso il suo pensiero). I problemi, in particolare, occorre affrontarli sviscerandoli, con “fare piano in ogni loro parte”, adottando un metodo sperimentale d’analisi che sia aderente alla realtà concreta ed eviti inutili voli pindarici; ipotizza poi delle soluzioni rispettose dei principi in cui crede: la moralità e l’intransigenza in politica, il federalismo, il liberismo, l’anticlericalismo, la lotta a ogni privilegio, l’ingiustizia.
Sostenuto da una fede incrollabile, Salvemini non è disposto a venire a patti sui suddetti principi. Pur non facendo parte dei partiti della sinistra democratica è uno dei suoi più veementi ispiratori che, dagli Stati Uniti, tuona contro ogni forma di collaborazione con la Monarchia, la Chiesa e i settori politici moderati. All’indomani del 25 luglio 1943, le polemiche sviluppatesi tra le forze più propriamente liberali e quelle democratico-azioniste culminano nella polemica tra Gaetano Salvemini e Benedetto Croce, i due maestri che, qualche anno dopo, sarebbero diventati numi della rivista Il Mondo di Mario Pannunzio (esponente dei liberali progressisti rifondatori del Partito Liberale): è questo il segno del superamento dei conflitti tra liberali e democratici nel primo dopoguerra.
In un articolo sulle minoranze, dal titolo Democrazia e clerocrazia, pubblicato su Il Mondo il 6 giugno 1953, Salvemini sottolinea di non accettare “nessun totalitarismo né ecclesiastico né secolare” e ribadisce di essere “anticlericale, antifascista e anticomunista”. Contrario a qualsiasi forma di commistione con gli avversari, Salvemini sottolinea che “i laici devono stare con i laici e i comunisti con i comunisti” e nelle battaglie comuni “colpire uniti quando è il caso, ma marciare separati sempre, ad ogni costo”. La linea politica che unisce il direttore de Il Mondo al professore laico era la Terza forza, o ‘terza via’ come la definisce Gaetano Salvemini. Entrambi sono convinti della necessità di dar vita a uno schieramento laico ‘terzo’ rispetto ai clericali e ai comunisti che, secondo il professore-storico, deve fondarsi su pochi punti essenziali: la questione meridionale, la riforma agraria, la diminuzione della disoccupazione, la liberalizzazione degli scambi, la riforma della scuola e una regolamentazione dei rapporti tra Chiesa e Stato diversa dal Concordato. Ricercando l’unità attorno ai problemi concreti ci si augura la fine delle spaccature tra i fautori del dialogo con il PCI e i difensori dell’area democratica.
Insieme al repubblicano Ugo La Malfa, Il Mondo insiste sulla Terza forza, mirando al superamento delle barriere identitarie tra i diversi partiti storici della democrazia laica. Intervenendo nel dibattito su Socialisti e liberali, Salvemini indica la strada per superare le titubanze dei partiti: “Esistono ovunque in Italia, isolati gli uni dagli altri, e inerti, molti uomini e donne di alto valore morale e intellettuale” ma “disgustati” dalle manovre dei politicanti anche liberali, repubblicani e socialdemocratici. Per Salvemini “uscirebbero dall’inerzia” se intravedessero una Terza Forza per attuare la quale sarebbe necessario mettere da parte “le pregiudiziali ideologiche” e i particolarismi di ogni tipo, che rappresentano un ostacolo per la formazione di un’intesa laica sotto forma di “confederazione”.
Gli eredi liberali di Cavour, repubblicani di Mazzini e socialdemocratici di Marx non fanno bene “ad andare a chiedere il parere dei loro antenati”, ignari delle attuali condizioni che richiedono una “terza via” indipendente da democristiani e comunisti. In un articolo pubblicato su Il Mondo il 15 marzo 1952, La terza via, liberali, socialisti, Salvemini lamenta, con la sua penna sanguigna, l’indebolimento del liberalismo e della democrazia oltre alla presenza di realtà separate e la loro difficile combinazione: “Noi siamo una mezza dozzina di pazzi malinconici, ultimi eredi di una stirpe illustre che si va rapidamente estinguendo; massi erratici abbandonati nella pianura da un ghiacciaio che si è ritirato sulle alte montagne. E’ il ghiacciaio che si chiama ‘liberismo’, ‘democrazia’, ‘socialismo’… Il liberale di allora rispettava la libertà altrui e rivendicava la propria … Era anticlericale… era individualista. Motivo per cui ci denomineremmo volentieri ‘liberali’. Ma la parola si è così debosciata nel secolo in cui respiriamo che ci vuole uno stomaco di struzzo per dirsi liberali […] Ci denomineremmo anche ‘democratici’ dato che la libertà… intendiamo estenderla a tutti gli uomini e le donne di tutte le classi sociali. Ma anche la parola ‘democratico’ si è debosciata… Ci chiameremmo socialisti o socialdemocratici dato che ameremmo lavorare alla costruzione di un assetto sociale nel quale i diritti di libertà siano integrati da un minimo di sicurezza e di benessere per tutti […] Ma questo socialismo si è andato anch’esso progressivamente così screditando […] In sintesi ci denomineremmo ‘liberali-democratici-socialisti-repubblicani’; e siccome la orribile abitudine americana delle iniziali ha invaso anche il nostro Paese, ci diremmo LSDR. Ma quelle quattro lettere ci ricorderebbero, combinate insieme, tutti i vituperi che accompagnano ormai le realtà separate”.
Con questo spirito, nel 1953, quando si prospetta l’eventualità che i partiti laici vadano incontro a una rovina improvvisa e inaspettata simile a quella del ’48, Salvemini appoggia, anche se dubbioso, l’alleanza con la DC e il premio di maggioranza, con l’obiettivo, condiviso da Mario Pannunzio ed Emilio Rossi, di “incoraggiare i piccoli partiti (PSDI, PLI, PRI) a chiedere di più, a farsi valere politicamente, a mettere condizioni alla DC”. Rivolgendosi alla DC, in una lettera a Salvemini del 13 marzo 1952, Pannunzio ribadisce: “Perlomeno in questo periodo preelettorale trattiamoli con una certa tolleranza”.
Salvemini accetta l’alleanza dei partiti laici con la DC per favorire la formazione di un governo senza destre e sinistre ma esige che sia garantito un programma esente da cedimenti ai clericali. La coalizione centrista e in particolare i partiti laici non ottengono però il consenso sperato, e Salvemini conserva un ricordo negativo di quest’esperienza vissuta all’unisono con Il Mondo di Pannunzio. La collaborazione tra Salvemini e Pannunzio ha comunque lasciato un segno indelebile nella storia dei democratici laici. Lo storico, attraverso il settimanale Il Mondo, esprime la sua moralità politica, contribuisce a definire la linea della rivista e ispira il metodo pragmatico dei Convegni del Mondo realizzati da Ernesto Rossi. Salvemini e Pannunzio cercano di riempire il vuoto della Terza forza che, tuttavia, non riesce a trasformarsi in una realtà politica attiva, pur trasmettendo alle generazioni future un alto contributo di cultura politica liberaldemocratica, forse il più interessante del Novecento italiano.
Le parole spese da Ernesto Rossi alla scomparsa di Gaetano Salvemini ci offrono un chiaro ritratto della statura morale di questo grande politico, ‘non conformista’, tollerante e sempre aperto al confronto: “Salvemini come Socrate somigliava ad un vecchio sileno… Chiarezza equivaleva veramente per lui a onestà. Si dava sempre cura di mettere bene in luce i primi principi, i presupposti non logici dei suoi ragionamenti. L’interlocutore poteva anche rifiutarli, dichiarando una diversa scala di valori. Salvemini era l’uomo più tollerante del mondo […] L’insegnamento di Salvemini non era mai dogmatico: sua preoccupazione era quella di formare lo spirito critico più che di accrescere le cognizioni nei cervelli dei suoi discepoli”. La vita di Gaetano Salvemini rappresenta quindi una grande lezione d’intransigenza e di rigore morale, d’impoliticità, all’insegna della denuncia del divario tra il Paese legale e il Paese reale, ed estranea a qualsiasi forma di compromesso fino alla fine. Era questo il segreto del suo concretismo e della sua singolare personalità.
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