Sembra strano, ma al tempo dei tagli di spesa e degli appelli a ‘stringere la cinghia’ un tema è drammaticamente fuori dal dibattito politico: la modifica del sistema di finanziamento pubblico ai partiti. Ci piacerebbe scrivere ‘rimborsi elettorali’, peccato che l’ammontare erogato dallo Stato sia quasi cinque volte superiore alle spese documentate dalle diverse formazioni politiche (dati riferiti alle elezioni del 2008). Siamo quindi costretti a utilizzare la prima terminologia, nonostante il volere popolare si sia chiaramente espresso a favore dell’abrogazione del sistema di sovvenzione pubblica (il referendum abrogativo dell’aprile 1993 ha visto il 90,3% dei SI’ e il 75% della partecipazione) introdotto con la legge 195 del 1974 proposta dal parlamentare democristiano Flaminio Piccoli e approvata, in poco più di due settimane, con il consenso di tutti i partiti ad eccezione del PLI.
Non si tratta di una battaglia ideologica. I numeri parlano chiaro e descrivono una situazione fuori controllo. Dal 1994 l’ammontare della spesa pubblica per il finanziamento dell’attività politica è cresciuto in maniera esponenziale. La legge 157 del 1999 aveva inizialmente previsto, in caso di legislatura politica completa, un plafond di 193,7 milioni di euro da versare per quote annue. La normativa è stata poi modificata dalla legge 156 del 2002 che ha trasformato in annuale il fondo e abbassato dal 4 all’1% il quorum per ottenere il rimborso elettorale. L’entità del contributo è aumentata da 800 lire a 1 euro per ogni voto (+142%) e l’ammontare da erogare, per l’intera legislatura, è passato da 193 milioni e 713mila euro a 468 milioni, 853mila e 675 euro, più del doppio. Ma il capolavoro si è compiuto con la legge 51 del 2006 con cui si è stabilito che l’erogazione è dovuta per tutti e cinque gli anni di legislatura, indipendentemente dalla sua durata effettiva. In questo modo, con la crisi politica del 2008, i partiti hanno iniziato a percepire il doppio dei fondi, ricevendo contemporaneamente le quote annuali relative alla XV e alla XVI Legislatura della Repubblica Italiana.
Nel mondo globalizzato in cui viviamo bisogna confrontarsi e, stando ai dati forniti dal Servizio Studi della Camera dei Deputati (Documentazione e ricerche n. 31 del 3/11/2006) il raffronto con le principali economie europee è deprimente. In Francia, il contributo annuale si divide in due parti uguali che vengono destinate ai partiti in base a due criteri: i voti conseguiti al primo turno delle ultime elezioni per il rinnovo dell’Assemblea nazionale e la rappresentanza parlamentare. L’entità totale del contributo annuale da destinare al finanziamento dei partiti è fissata nella legge finanziaria: lo stanziamento annuale è invariato dal 1995 ed è pari a circa 80 milioni di euro, tre volte inferiore ai 256 milioni erogati in Italia nel 2008 .
Nel Regno Unito sembra di essere su Marte. Il finanziamento pubblico, se si escludono alcuni servizi messi a disposizione dallo Stato nel corso delle campagne elettorali, è limitato ai contributi concessi ai soli partiti di opposizione rappresentati in Parlamento. Nel 2006 la House of Commons ha stanziato 5 milioni, 603mila e 779 sterline e la House of Lords 69mila e 691. Solo 7,5 milioni di euro, strani questi inglesi.
In Germania, invece, il finanziamento pubblico è commisurato a due fattori, i voti conseguiti nelle ultime elezioni e l’entità del finanziamento privato (0,38 euro per ogni euro che il partito riceve) e incontra due limiti: uno assoluto e uno relativo. Il primo prescrive che non si possono complessivamente superare i 133 milioni di euro, mentre il limite relativo stabilisce che il contributo al singolo partito non può superare l’importo annuale dell’autofinanziamento. Senza il supporto della propria base elettorale, le formazioni politiche tedesche non ricevono nessuna sovvenzione pubblica: un modo per subordinare la sopravvivenza del partito alla soddisfazione delle istanze che dovrebbe rappresentare e dunque alla sua performance. Allineando il sistema italiano alle best practice europee si risparmierebbero ingenti risorse da dedicare al rilancio dell’economia nazionale. Perché non intervenire?
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Condivido lo stupore e l’amarezza perché tante persone che pure stimo e di cui mi sento amico non hanno avuto il coraggio civile di intervenire per tempo, per rifiutare il crescente immotivato privilegio descritto nell’articolo di Rivoluzione liberale. Si tratta, temo, di una cultura che non è stata fecondata da prospettive come quelle di De Gasperi, di Einaudi, di Quintino Sella, di La Pira.
Chi può, faccia qualcosa, a costo di ottenere parole di fastidio e di sufficienza. Luciano Corradini