Abbiamo conosciuto Mario Martone per caso nell’autunno del 2008, in una storica e fumosa trattoria di Madrid. Il grande regista napoletano, uno dei pochi maestri di cinema (e non solo) che abbiamo, era seduto al tavolo accanto e ci ha chiesto – intuendo che fossimo italiani – che cosa fossero le berenjenas. Due espatriati che parlavano sottovoce di melanzane protetti dalla boiserie e dalle voci dei commensali, qualcuno avrebbe potuto scambiarci per carbonari d’inizio ottocento intenti a tramare nell’ombra. Martone era nella capitale spagnola per preparare la regia del “Ballo in maschera” verdiano, ma nella sua testa già covava l’ambizioso progetto risorgimentale di girare il suo kolossal “Noi credevamo”, il vero e meritato vincitore dell’ultima edizione dei David di Donatello, tenutasi lo scarso 6 maggio a Roma presso l’Auditorium della Conciliazione, dove si è portato a casa le statuette come miglior film e miglior sceneggiatura.

Il premio a “Noi credevamo” – opera ambiziosa ed educativa, elegante ed etica – è stato il tipico sussulto di dignità di una manifestazione che, dispiace dirlo, ha rispecchiato la superficialità e la mediocrità dei tempi, anche culturali, che corrono. Dei finti Oscar per un finto cinema, potrebbe essere lo slogan. Perché se è stato ricordato con piacere che quest’anno il cinema italiano ha segnato tutta una serie di record quanto a incassi e visibilità, trainato da alcune commedie che va di moda definire “garbate”, “gentili”, “educate”, per differenziarle da quelle in cui indefettibilmente un tappo di champagne finisce nella bocca di Massimo Boldi, c’è poco da stare allegri a scorrere l’elenco degli altri vincitori. Una comica prestata dalla televisione è la migliore attrice (Paola Cortellesi), un cinquantenne è il miglior regista esordiente (Rocco Papaleo), un film modesto come “La nostra vita” ottiene gli altri due premi pesanti (Elio Germano miglior attore e Daniele Luchetti miglior regista). A quelli che più meriterebbero – la sensuale Valentina Lodovini e il versatile Beppe Battiston – come al solito restano le briciole dei non protagonisti.

La serata, condotta con piglio ironico dal redivivo Tullio Solenghi, è stata povera di glamour ma ricca di premi “condivisi” (con le mamme, gli zii, le nonne, per la gioia di Arbasino), di rivendicazioni sindacali (Germano, in piena trance da delegato FIOM al Lingotto, ha dedicato il premio a “tutti i lavoratori e le lavoratrici del cinema”. Peccato che, in puro stile Gosford Park, ai pochi membri della servitù cinematografica ammessi alla serata di gala erano state riservate delle scomode poltrone in piccionaia), di emozioni annunciate, di strette di mano, di finte bionde e dirigenti con cravatte troppo corte in platea. Una piccola casta in cui si conoscono tutti, dove ogni saluto è in realtà un timido approccio lavorativo, in un mondo che, nonostante i lustrini, non si distingue dagli altri microcosmi lavorativi in cui ormai la carriera ha sostituito la malizia, a volte in maniera indistinguibile, confondendosi con essa. Lo star-system è ancora lontano (solo la scollatura di Violante Placido ci fa sognare per un attimo di essere a Hollywood), ma resta la speranza del film di Martone. Noi ci crediamo.

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