L’Europa è colpita da una piaga le cui implicazioni vanno ben oltre il semplice dato quantitativo: la vera e propria crisi demografica che si sta manifestando con particolare virulenza nelle regioni orientali del Continente. Diverse concause alimentano il fenomeno, tra le quali gli squilibri fra nascite e decessi ed i disallineamenti nei flussi migratori. Questi scompensi vanno a incidere sul tasso di crescita della popolazione, indice espresso in termini di variazione annua percentuale. I Paesi dell’Europa dell’Est primeggiano nella mesta classifica degli Stati che fanno segnare decrementi più consistenti. Su 230 Stati e territori censiti dalla CIA, l’Estonia si colloca al 223° posto (-0,65%), l’Ucraina al 221° (-0,65%), la Lettonia al 220° (-0,63%), la Russia al 219° (-0,48%), la Serbia al 218° (-0,46%) e la Lituania al 210° (-0,28%). Il bollettino di guerra non lascia spazio a forme di ottimismo, essendo questi Paesi superati solo da alcuni SIDS (Small Island Developing States) sperduti negli oceani.

Particolarmente sentita l’emergenza in Lettonia, dove il censimento del 2011 – fotografando un Paese popolato da poco meno di 2,1 milioni di persone – ha ricevuto una vasta tematizzazione mediatica. I demografi si sono scatenati sulle interpretazioni dei dati (ritenuti da alcuni addirittura sovrastimati del 10%), che indicano fra l’altro come nel periodo fra il 2000 e il 2011 la popolazione lettone sia diminuita del 13% (309mila persone). Fra le diverse contromisure delineate, è stato richiesto un deciso intervento dello Stato con politiche demografiche propositive e un chiaro piano d’incentivi alla maternità.

Nel 2008 sono infatti nati in Lettonia 10,2 figli per 100 abitanti. Nel 2009 sono calati a 9,6 e nel 2010 a 8,6. Proseguendo con questa tendenza, entro il 2050 la popolazione assommerà al 64,3% di quella attuale. Le famiglie con un solo figlio sono 90mila, quelle con due bambini sono 52mila, 25mila con tre e appena 4mila e ottocento con quattro o più figli. Ancora, stime per il 2011 dicono che la popolazione l’anno scorso è diminuita di 23mila persone rispetto all’anno prima, più o meno equamente bilanciate fra squilibri nel rapporto nascite/decessi e migrazioni nette verso l’estero.

Ciò detto attiene al profilo quantitativo. Le ripercussioni più gravi sono tuttavia di ordine qualitativo, afferendo direttamente anche alla sfera dell’economia. Secondo alcune proiezioni, la popolazione economicamente attiva in Lettonia subirà in vent’anni un decremento di 500mila unità, sconvolgendo mercato del lavoro e potenzialità di sviluppo del Paese.

Il Ministero del Welfare, per contrastare l’asfissia demografica, ha sviluppato un piano d’azione sessennale 2011-2017 mirato alle politiche familiari. Il ministro delle finanze Vilks Andris ha quantificato l’impatto delle misure sul bilancio pubblico nell’ordine del mezzo miliardo di lat (oltre 700 milioni di euro). Fondi di difficile reperibilità, nell’attuale congerie internazionale.

A un esame conclusivo, appare evidente come le conseguenze di questa crisi, lungi dal dipanarsi esclusivamente in ambito socio-economico, creino tensioni – come osservato in precedenza – anche da un punto di vista etnico e politico. Il conflitto strisciante fra Russi e Lettoni di Lettonia assume in quest’ottica i contorni di una vera e propria lotta per la sopravvivenza.

La ‘sindrome da accerchiamento’ è assai sentita dagli etnicamente Lettoni anche per via dell’impoverimento demografico che dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica li ha colpiti in modo particolarmente virulento, rendendo la comunità molto più sensibile a tematiche quali l’introduzione della seconda lingua di stato nella Repubblica (il russo) e la possibilità di mantenere l’insegnamento in russo nelle scuole primarie. La difesa della lingua è quindi assurta a condizione necessaria (ma non sufficiente) per preservare la ‘massa critica’ di una collettività che sta vedendo erodersi la propria forza numerica e il proprio peso geopolitico.

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