C’è questa brutta espressione che esercita il suo potere incontrastato in ogni angolo, anche il più remoto, della politica italiana. Non è necessario ascoltarla ai piedi di un megapalco allestito in qualche piazza o palasport, è facile sentirla pronunciare anche da improbabili cavalieri della democrazia, dal vicino di casa, dal barista che passa dal pallone alla politica. Una, dieci, cento voci formano un cicaleccio inconfondibile dal quale estrapolare frasi ad effetto boomerang che molto hanno da dirci sul piano della qualità e della confusione raggiunte.
“Intercettare il consenso”, tutto il resto verrà da sé. Eccola lì la grande preoccupazione, il nemico invincibile, il sovrano da spodestare. Passato il berlusconismo e defenestrato il grande caimano, la politica ha dovuto a tutti i costi scovare un avversario all’altezza per rendere meno vano il ruolo che le compete. C’ha provato con Monti e i tecnici, tirandogli qualche tranello quando andava bene, passando alle pugnalate alla schiena quando la situazione lo richiedeva. Ora che sul campo di battaglia non c’è più nessuno, a parte fili d’erba e margherite ondulate dal vento, i partiti ripartono al galoppo e come novelli Don Chisciotte sono pronti ad infilzare le pale di mostruosi mulini a vento. Guarita dall’abbaglio, madame politica rimescola le carte e osservando i granuli di sabbia che scendono velocemente nella clessidra che segna “anno2013”, s’affretta ad incipriarsi alle belle ‘e meglio prima del gran ballo autunnale.
Se c’è una cosa che inquadra il fenomeno abbastanza bene è che con la scusa di abbracciare i delusi e di portare conforto agli astensionisti, i programmi vanno in secondo piano. Peggio, non contano proprio. E allora ecco le trame, gli accordi segreti, i triumvirati per cambiare la legge elettorale, le alleanze trasversali, gli sguardi ammiccanti a destra e sinistra per sfornare il cosiddetto soggetto nuovo, il contenitore del futuro per calamitare i giovani. Ecco le strategie d’indebolimento, che guardano all’orticello del consenso, tattiche militari degne di Risiko per racimolare la percentuale buona per scavalcare lo sbarramento.
Prendiamo il Pd (del Pdl con la bocca che sa ancora di latte e che millantava rivoluzioni liberali conosciamo vita, morte e miracoli), fino a poco tempo fa quando era incapace sul da farsi tirava fuori lo specchio per restare aggrappato a un passato che poteva dargli sostentamento. Oggi, alle prese con sentimenti incontrollabili, il riformismo se lo fa scrivere dagli altri. Come scriveva Fossati, sarebbe “un altare di sabbia in riva al mare” pensare di costruire un soggetto politico in quattro e quattr’otto. Il PLI se non altro si rifiuta di mercanteggiare svendendo la sua storia e i suoi ideali in cambio di un orsetto di peluche.
Intercettare il consenso, ovvero il punto di non ritorno, la tabula rasa di una politica non da Terza Repubblica, ma da Terza Fascia. Ammettiamolo, sul tavolo non mancano solo le idee o nuove forme di linguaggio, non c’è la capacità, il talento, per trovare nuovi canali di comunicazione.
Se c’è una cosa che la politica non sa fare oggi, è di dire agli italiani quello che vogliono sentirsi dire.
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Complimenti a Stefano Cece che sa cogliere anche le potenzialità di un Partito di antico lignaggio come è il PLI a fronte delle “giovani” formazioni politiche che si affannano ad “intercettare” consensi attraverso scomposizioni e ricomposizioni, a dir poco, opinabili. Non bisogna mai dimenticare che la formazione politica più antica fra quelle approdate in Parlamento attraverso il porcellum è, ahimè, la Lega.