“Sarò il presidente di tutti, indipendentemente dalle divisioni più apparenti che reali” ha affermato il neopresidente designato dalla giunta di Confindustria, Giorgio Squinzi, che ha superato l’altro candidato Alberto Bombassei con uno scarto di così pochi voti, 93 ad 82, che ha portato molti commentatori a parlare di una frattura ideologica interna a Confindustria.

In realtà ci si poteva aspettare una simile polarizzazione dei consensi, sia perché era dal lontano 2000 che la giunta non si trovava a dover scegliere tra due candidati, sia perché l’eccellenza e la forte personalità di entrambi lasciavano poco spazio ad una preferenza oggettiva.

Da un lato Bombassei, il patron della Brembo, la famosa azienda di freni, che da subito puntava ad una trasformazione della stessa Confindustria per renderla meno elefantiaca e più efficiente, molto attento al tema dell’articolo 18, a suo dire un punto nevralgico delle disfunzioni nel mercato lavorativo italiano, e ben visto da industriali come Montezemolo e Marchionne, il quale aveva già dichiarato che senza Bombassei alla presidenza FIAT non sarebbe rientrata in Confindustria.

Dall’altro, Giorgio Squinzi, amministratore delegato di Mapei, un gigante della chimica fondato dal padre nel 1937, con 7.500 impiegati e un fatturato di 2,1 miliardi di euro, 59 stabilimenti produttivi, di cui nove sul territorio italiano e gli altri sparsi in 27 Paesi diversi. Già presidente di Federchimica e vice-presidente di Assolombarda, Squinzi è apparso orientato più alla riforma dell’Italia che della Confindustria stessa, meno interessato dell’opponente alla questione dell’articolo 18, perché a suo dire “a fermare lo sviluppo del Paese non è l’articolo 18, ma la burocrazia, la mancanza di infrastrutture, il costo eccessivo dell’energia”.

Appassionato di ciclismo, grande sportivo, proprietario della squadra di calcio di Sassuolo (cittadina vicino a Modena, sede dell’azienda), “una persona diretta, semplice e amabile” ed un “campione del made in Italy”, come è stato definito rispettivamente dall’ex Premier Romano Prodi e dalla presidente uscente Emma Marcegaglia.

Ma soprattutto il neopresidente Giorgio Squinzi è il simbolo di un modo di fare impresa di cui l’Italia ha oggi più che mai bisogno: tra i fattori chiave del successo della sua azienda l’internazionalizzazione, la ripartizione del fattore rischio su vari mercati e l’investimento annuo del 5% del fatturato in ricerca e sviluppo, perché “non dare i soldi alla ricerca, non incentivarla con un meccanismo automatico di qualunque tipo, è un po’ come una famiglia che sceglie di non investire sul futuro dei propri figli, non mandandoli a scuola” (dal libro Padroni d’Italia, 2004).

Sono questi gli elementi chiave che hanno permesso alla sua azienda di attraversare brillantemente la crisi senza dover licenziare alcun dipendente – fatto di cui egli si vanta molto più che del fatturato – e che se riuscisse ad infondere a tutto il sistema produttivo italiano, dalla posizione che ora ricopre, potrebbero realmente riportare l’Italia in sella e spingerla verso quel percorso di crescita che cerca da troppo tempo. 

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