È diventato quasi impossibile aprire il giornale o guardare la TV senza essere afflitti, non solo dalle notizie sulla crisi economica e dell’occupazione, ma da storie di malaffare che, a forza di ripetersi, non hanno più carattere straordinario o patologico, ma ordinario e fisiologico. Non si era ancora digerito il colpo dato alla credibilità della politica dal furto a grande scala attribuito all’ex-tesoriere della Margherita; ora tocca alla Lega Nord: prima c’è stata l’indagine sul Presidente leghista della Regione Lombardia, che nessuno pare voler ricordare nei tanti commenti di questi giorni e che aveva già sfatato l’illusione di una sorta di verginità morale della Lega; ora l’affare Belsito, ben più grave perché tocca vicino Bossi, o almeno la sua famiglia. Tutto nella Lega, dal separatismo all’intolleranza, dalla demagogia al linguaggio volgare, è visceralmente alieno a qualsiasi spirito liberale. Ma si era sempre voluto credere che si trattasse almeno di un movimento – rozzo, certo – ma “pulito” (e in questo diverso da altri) e che Umberto Bossi fosse persona al di sopra di considerazioni di mero interesse. La maggior parte della gente, amici e avversari, continua a considerarlo tale; personalmente mi infastidiscono i giudizi superficiali e affrettati e ritengo che qualsiasi giudizio, positivo o negativo, vada sospeso fino ad accertamenti conclusi della Magistratura; ma intanto, quello che è emerso dalle indagini di tre Procure della Repubblica, ed è documentato dalle intercettazioni, è prova eloquente che anche nella Lega si annidava il tarlo roditore dell’avidità e della corruzione a spese dei soldi dei contribuenti e toccava da vicino la stessa famiglia del leader della Lega e altri importanti esponenti di quel Partito, in un modo che è difficile pensare che il vecchio leader potesse del tutto ignorare.
Si sono spese molte parole, e persino qualche lacrima, sulle sue dimissioni, certo un gesto di responsabilità ma, mi pare, un gesto quasi obbligato: perché, come qualsiasi studente del primo anno di Legge sa bene, oltre il crimine attivo c’è quello per omissione e, specificamente, la “culpa in vigilando”, che nel caso dei Partiti spetta ai loro dirigenti massimi, di cui non è possibile eludere, se non la responsabilità penale, sicuramente quella politica. E se i dirigenti della Margherita, un gesto analogo non lo hanno fatto (come forse avrebbero dovuto), ciò non serve a far passare una diversità della Lega e del suo capo rispetto alle abitudini del mondo politico, prima di tutto perché nello scandalo Lusi nessuno ha potuto parlare di benefici andati alle famiglie di Rutelli o di altri dirigenti, quando è chiaro che quel che ha colpito a morte Bossi e lo ha costretto alle dimissioni è stato il coinvolgimento diretto dei suoi figli e forse di sua moglie. Non mi sciacquerei perciò la bocca con la nobiltà del gesto del vecchio leader, né del suo coraggio. E, in ogni caso, qualsiasi merito vada riconosciuto alla sua decisione, Bossi lo ha a mio modo di vedere compromesso quando – invece di riconoscere silenziosamente le proprie colpe dirette o indirette, di cui le sue stesse dimissioni e alcune dichiarazioni fatte a caldo dimostrano quanto fosse amaramente cosciente – ha avuto il coraggio di sparare sui “giudici farabutti”, a suo dire manovrati da una imprecisata “Roma ladrona”.
Usando così un classico, trito e francamente disgustoso espediente, già molto usato da Berlusconi e da tutti quanti abbiano voluto in passato stornare l’attenzione dalle loro colpe, reali o immaginarie, tirando fuori incredibili “cospirazioni giudiziarie”: tattica conosciuta fino alla nausea, e che pur riesce ogni volta a trovare qualche eco in un pubblico ammalato di dietrologia, o in gente che preferisce chiudere gli occhi alle colpe dei suoi idoli rifugiandosi in comodi sospetti di cospirazioni o persecuzioni ai loro danni: come se il male non stesse nel malaffare, ma in chi lo denunzia e lo persegue perché questo, tra l’altro, è il suo preciso dovere.
Bossi e i suoi (non tutti, però: eccezioni ce ne sono state, e di peso, anche nella Lega) hanno fatto subito ricorso a questo volgare stratagemma, dimostrando così la propria omologazione anche per questo verso ai vizi della tanto denunciata “politica”.
Non siamo, beninteso, tanto ingenui dal credere i giudici italiani perfetti e sempre alieni da pulsioni politiche, ma quando fanno il loro mestiere riteniamo che debbano essere lasciati agire senza indebiti sospetti o, peggio, insulti e ricordiamo che la Legge deve essere uguale per tutti: se un magistrato (o un poliziotto) viene a conoscenza di un’ipotesi di reato che riguardi una persona o un gruppo legato alla politica, è suo dovere indagare, come se si trattasse di un qualsiasi cittadino o gruppo. Cosa dovrebbe fare altrimenti? Farsi rispettosamente da parte per non essere accusato di essere strumento della politica? Graduare i tempi delle indagini in modo da tenersi lontano da scadenze elettorali che, nel nostro Paese, sono tra l’altro piuttosto frequenti? E ricordiamo una volta di più che una Magistratura capace di perseguire efficacemente il malaffare e la corruzione senza guardare in faccia a nessuno è una garanzia per tutti i cittadini e un requisito fondamentale di una società democratica e civile; ed è inoltre una delle condizioni per un sano sviluppo dell’economia, che dal malaffare e dalle corruzione subisce quotidianamente danni gravissimi.
Ma quello che deve preoccuparci ora è il fatto che non è più possibile definire questo o quell’altro episodio come fatti, gravi certo, ma tutto sommato isolati. Il fenomeno è più ampio, se anche dobbiamo guardarci dal fare di ogni erba un fascio e attribuire colpe, sia pur diffuse, di singoli, a tutti i politici o a tutti gli amministratori. Già nei tempi della Prima Repubblica, finanziamenti e spese dei Partiti rappresentavano un lato oscuro della loro vita e questo è proseguito nella Seconda Repubblica. È venuto il momento di riformare l’intero sistema, rendendolo trasparente e controllabile e questa è divenuta un’emergenza civile in una fase storica che non è più di generalizzata finanza allegra, ma di sacrifici e giri di vite per tutti: in queste condizioni, l’opinione pubblica non può più accettare che le scarse risorse pubblicate siano malversate. Al contrario, I cittadini hanno il diritto di esigere che qualsiasi euro pubblico sia speso in modo corretto, con le giustificazioni e i controlli più severi. Chi ha gestito nella sua vita lavorativa, come funzionario dello Stato, soldi di tutti, sa che di essi deve rendere conto, fino all’ultimo centesimo, a un complesso, e magari farraginoso, sistema di controlli amministrativi e contabili, che culminano nel necessario esame della Corte dei Conti: non pretendo che il sistema funzioni perfettamente, ma almeno esiste e ritengo serva da deterrente. Un Prefetto, diciamo, o un Ambasciatore, o un Direttore Generale, che usasse denari pubblici per comprarsi un’auto personale o ristrutturare la propria casa, sa bene che prima o poi rischia di essere scoperto e severamente (e giustamente) punito.
Perché le stesse regole non dovrebbero valere per altre istanze pubbliche, come i Partiti? Bene ha dunque fatto il Capo dello Stato, con la consueta tempestività, a reclamare una legge che assicuri trasparenza e controlli dei bilanci dei Partiti; e bene fanno Bersani, Casini e Alfano, a dirsi pronti a presentare una legge del genere. Nuove, chiare e ferree regole sono dunque urgenti: gli esempi a cui ispirarsi non mancano in Paesi più avvertiti di noi.
Una nota a piè pagina, su un fatto che col malaffare non ha relazione, ma è comunque la spia di un deplorevole malcostume politico: come definire altrimenti che vergognoso l’attacco del’On.Di Pietroal Presidente del Consiglio, con la gravissima, diffamatoria accusa di avere sulla coscienza i suicidi di infelici imprenditori costretti al fallimento? Evidentemente, nei valori di IDV non ci sono né la decenza, né il rispetto della verità, che insegna che la crisi viene da lontano e non è certo attribuibile al presente Governo, che è semplicemente il medico chiamato al capezzale di un malato da tempo grave; e neppure il rispetto minimo dovuto a chi, anche se avversario, fa con onestà e senso della misura quello che ritiene necessario per il bene comune. Un bene a cui certuni continuano a preferire demagogia gratuita e interessi elettorali meschini e di corto respiro.
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