Stati Uniti, Iran, Siria, Arabia Saudita, Cina: la politica estera di Ankara fa girare la testa. Come si può essere allo stesso tempo amici di Washington e di Teheran? Come condannare il regime siriano sostenuto dall’Iran? La Turchia, potenza economica emergente e Paese musulmano membro della NATO, porta avanti una diplomazia iperattiva e ambiziosa, che qualcuno ha definito “neo-ottomana”. L’Iran sostiene il Presidente Assad, mentre la Turchia condanna sempre più aspramente il regime di Damasco. Ciò nonostante, Iran e Turchia affermano continuamente la loro buona intesa, come dimostrano i numerosi viaggi a Teheran del Primo Ministro Recep Tayyip Erdogan, il quale è sempre accolto con tutti gli onori che si riservano a una personalità di grande importanza, sia da Ahmadinejad sia dalla Guida Suprema, Khamenei.
Se da un lato la Turchia ha respinto le sanzioni imposte dall’Unione Europea e dagli USA, che tentano di bloccare le esportazioni di petrolio iraniano, dall’altro Washington si è congratulata con lei, per aver ridotto del 20% le sue importazioni di greggio iraniano. Ankara ha anche accettato lo scorso anno di ‘ospitare’ sul suo suolo un radar antimissile della NATO, puntato sull’Iran. Teheran ha protestato più volte contro la Turchia, ricevendo solo spiegazioni imbarazzate da Ankara. Alleata tradizionalmente con gli USA, la Turchia, oggi diretta da un regime islamico moderato, beneficia inoltre del sostegno militare di Washington nella lotta contro i ribelli curdi, spina nel fianco di tutti i governi turchi dal 1984 in poi.
A cosa mira Erdogan? Sembrerebbe che il principale obbiettivo della Turchia, oggi, sia impedire un intervento militare contro l’Iran. Erdogan si è fatto carico di una sfida non indifferente. Dopo aver partecipato a fine marzo al summit sulla sicurezza nucleare in Corea del Sud, si è recato a Teheran per chiedere ai dirigenti iraniani di giungere a un accordo costruttivo durante la prossima tornata d’incontri sulla questione del nucleare tra l’Iran, i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e la Germania (i 5+1). Questi colloqui sono stati ospitati da Erdogan a Istanbul il 13 aprile scorso, nonostante la reticenza degli ultimi giorni da parte di Teheran, per la posizione sempre più dura assunta da Ankara nei confronti della Siria. Lo scoglio è stato superato garantendo al Consiglio Supremo di Sicurezza Nazionale iraniano, un secondo ciclo di discussioni a Baghdad. Ankara ha inoltre riconfermato il suo appoggio al piano nucleare iraniano.
Nel maggio del 2010 Erdogan si era già attivato affinché fosse siglato un accordo tra Stati occidentali e Iran. Questo accordo, frutto di una mediazione di Brasile e Turchia, era stato presentato al resto del mondo come un’iniziativa innovatrice e destinata a stabilire una fiducia reciproca, ma gli Stati Uniti e i loro alleati l’hanno respinto affermando che non era altro che una trappola dell’Iran. La questione aveva aperto una seria crisi con gli USA e alimentato le critiche nei confronti del Governo Erdogan, sia in Turchia sia all’estero, per essersi allontanato così tanto dai suoi alleati di vecchia data. Il ricordo di questa crisi è ancora vivo negli ambienti di governo turchi.
Per quale motivo Erdogan, dopo essersi bruciato le dita solo due anni fa, rilancia la questione? Che cosa spera di riuscire ad ottenere da Teheran? La situazione è molto cambiata in Medioriente negli ultimi due anni, e non sempre a vantaggio della Turchia, che cerca oggi di contenere una situazione di sicurezza regionale che va deteriorandosi rapidamente. La crisi siriana obbliga le autorità turche a riconoscere la resilienza del regime di Assad e la sua ormai conclamata ostilità nei confronti della Turchia. L’Iraq, altro Paese vicino, corre il rischio, dopo il ritiro delle truppe americane, di una lotta settaria molto lunga per la conquista del potere. Un attacco americano o israeliano contro i siti nucleari iraniani destabilizzerebbe ancora di più la regione, annullando ogni prospettiva di soluzione negoziata.
I viaggi in Iran di Erdogan avrebbero avuto lo scopo di far capire agli iraniani che la comunità internazionale è determinata a ottenere trasparenza da parte dell’Iran sul suo programma nucleare. Un atteggiamento intransigente porterebbe queste discussioni a una impasse, aumentando la possibilità di un nuovo confronto militare in Medioriente. Un gesto di buona volontà da parte degli iraniani, come per esempio la limitazione di arricchimento dell’uranio al 20%, un arricchimento insufficiente alla produzione di armi nucleari, sarebbe un messaggio di cruciale importanza.
Ma non c’è solo l’Iran nella mente di Erdogan. Il Primo Ministro turco e quello cinese Wen Jabao hanno firmato due accordi sul nucleare il 9 aprile scorso, durante la visita di Erdogan in Cina, visita avvenuta dopo ben ventisette anni di ‘gelo’. La Cina ha bisogno della Turchia. La Turchia è un Paese in forte crescita economica, è alle porte dell’Europa e ha un ruolo strategicamente importante sia nei confronti dell’Europa sia del Medioriente stesso. Questa nuova alleanza è molto più che ‘nucleare’. Non dimentichiamoci dell’Arabia Saudita, partner privilegiato di Ankara (due grandi Paesi sunniti), dove si è recato il Premier turco venerdì, per valutare un eventuale ‘piano B’ qualora fallisse quello di Kofi Annan (che peraltro Ankara ‘appoggia’ pienamente). L’ingresso nell’Unione Europea non sembra più essere tra le priorità di Ankara che guarda con interesse ai BRICS.
Erdogan come ‘ambasciatore’ verso Teheran (e verrebbe da pensare come ‘salvatore’ di Obama che trova nel ‘dossier Iran’ uno dei punti deboli della sua campagna elettorale). Erdogan a capo di un Paese non solo strategicamente importante, ma economicamente stabile. Erdogan membro protetto della Nato. Se l’Iran deciderà di iniziare (come sembra, visto l’esito dei colloqui di Istanbul che hanno fissato una nuova tavola rotonda a Baghdad per il 23 maggio) un dialogo con la comunità internazionale durante i colloqui dei 5+1, proponendo misure concrete destinate a stabilire un rapporto di fiducia, al Premier turco deve essere attribuito il merito di aver dato un’altra possibilità alla diplomazia, e soprattutto di aver evitato un disastroso confronto militare in Medioriente. Non si può negare che sia un personaggio di grande carisma politico. Viene però da domandarsi se finito l’uomo Erdogan (la cui salute preoccupa molti osservatori e compatrioti), la Turchia sarà forte abbastanza da mantenere questo ruolo di pacificatrice internazionale e grande riformatrice nazionale.
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Brava Jacqueline! Come sempre, un’analisi lucida, documentata e interessante, che individua bene la chiave della politica estera di Erdogan: tentare di garantire pace e stabilitá in un’area a cui la Turchia è vitalmente interessata, giocando pragmaticamente su tutti i tavoli in cui Ankara, cerniera tra due o più mondi, è presente: USA-NATO e mondo islamico. Speriamo che ci riesca!