L’inversione del ruolo tra politica ed economia, ossia lo spostamento del baricentro decisionale tra di esse, è ormai tra i dati di fatto che saranno analizzati quando in futuro si cercherà di dare una spiegazione univoca agli eventi occorsi nel momento storico in cui stiamo vivendo. La posizione centrale della politica, sulla base della quale veniva definito l’indirizzo economico di una Nazione per gli anni a venire, è oggi sempre più subalterna alle necessità dell’economia, che influenza la direzione della politica, la sua nascita e la sua fine.
Se non bastassero i casi di Grecia, Portogallo e Irlanda, di fatto commissariati dalla troika per porre un freno all’insostenibilità del debito, o ancora l’esempio della stessa Italia con il suo settimo mese di governo tecnico, potremmo volgere lo sguardo ai recenti accadimenti in Olanda (uno dei Paesi che più aveva spinto sull’austerity e sul rigore di bilancio insieme alla Germania) dove il primo ministro Mark Rutte ha rassegnato le dimissioni dopo il naufragio della dialettica con i liberali di Geert Wilders, affondata proprio sui temi dei tagli alle spese.
Sul campo francese si gioca una partita analoga, e non stupiscono i risultati elettorali ottenuti finora. La Francia oggi rappresenta perfettamente le differenti opinioni comuni in merito al futuro economico europeo: da un lato, lo scontro, tra la ricerca del rigore a tutti i costi, rappresentata da Sarkozy, e la volontà di porre più attenzione ai temi sociali e di crescita, rappresentata da Hollande, dall’altro il nazional-populismo anti-europeista di Le Pen, in linea con il partito di Wilders.
Le proposte del candidato socialista, tra cui la rinegoziazione del fiscal compact, l’abbassamento dell’età pensionabile da 62 a 60 anni e una possibile riforma del mercato del lavoro in senso contrario a quello voluto dalla Germania, spaventano i mercati, come dimostra lo stesso Economist che lo definisce “un uomo pericoloso”.
Questo perché sebbene sia chiaro che di sola austerity si muore, confondere i risultati a breve termine (taglio della spesa e riduzione del deficit) con quelli a lungo termine (ripresa e crescita) è nocivo sia dal punto di vista economico, in quanto crea una discontinuità di vedute tra gli interessi europei e quelli nazionali sul futuro economico comune, sia dal punto di vista politico, in quanto lascia spazio agli sfoghi populisti che raccolgono voti con un programma dalle prospettive ristrette ma allettante per la soddisfazione delle esigenze a breve termine, scaturite dalla diffusone del malcontento tra la popolazione verso l’unione Europea.
Se è vero che da più parti si rafforza la voce che chiede un cambiamento politico e la fine dell’influenza tedesca sulla Bce, è altrettanto vero che i nascenti paradigmi politici non potranno esimersi dal confronto con la realtà economica, perché la sua negazione, in un senso o nell’altro, costituisce comunque un passo in più verso il tracollo dell’Eurozona, e con essa della nostra possibilità di avere ancora, un domani, un ruolo centrale nelle politiche economiche mondiali.
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