Sta finendo male – come era iniziata – la polemica tra il premier e Alfano (con altri intervenuti) sulla compensazione tra crediti dello Stato e dei contribuenti. Discussione che ha il pregio – tra le molte prove in giro – di provare che, ad onta delle professioni di fede liberaldemocratiche che da vent’anni ascoltiamo da (quasi) tutti, al contrario di quanto diceva don Benedetto, tanti credono di essere liberali, ma non lo sono.

La polemica è cominciata usando un termine: la compensazione, svincolato dalla disciplina giuridica della medesima, per cui per lo più, non si capiva bene di cosa i questionanti parlassero.

Per questo occorre brevemente chiarirne il concetto: la compensazione è un modo d’estinzione delle obbligazioni (anche quelle pecuniarie, tra cui imposte, tasse et similia), che da millenni fa parte del diritto, ed è disciplinato dagli artt. 1241 ss. del codice civile italiano vigente. Si verifica quando vi sono obbligazioni reciproche tra due persone; e solo tra debiti e crediti certi, omogenei, liquidi ed esigibili (art. 1243 c.c.); se volontaria (cioè consensuale) anche se non ricorrono i presupposti di legge. É d’applicazione generale ma il codice prevede (art. 1246 c.c.) che possono esservi divieti stabiliti da apposita prescrizione di legge. In materia fiscale, fino al 1997 era ammessa solo in modo episodico e specifico. Tra le (non molte) cose buone fatte dall’allora governo (di centrosinistra) vi fu di estenderla, ammettendo la c.d. compensazione fiscale orizzontale: cioè tra imposte diverse e estendendo l’applicazione (un credito per IVA con un debito per IRPEF e così via), ma solo per crediti e debiti tributari. Ne deriva quindi che non si applica se tra lo Stato e il contribuente vi siano debiti e crediti di cui uno non fiscale.

Per i rapporti di dare/avere tra Stato e cittadini così vige, allo stato, una regolamentazione giuridica particolare, che non è quella codicistica valevole per tutti. Posto il problema la soluzione era (ed è) semplice: applicare anche al rapporto fisco/cittadini la disciplina comune.

Invece il dibattito è iniziato con parole altisonanti – ma evidentemente “fuori bersaglio”.

Il premier, di fronte alla proposta del PDL (apprezzabile ma corporativa) ha espresso sdegno, tra l’altro, verso chi propone di “istituire personali e arbitrarie compensazioni tra crediti e debiti verso lo Stato”.

Ora, dato che la compensazione è istituto bimillenario, reso di portata generale almeno da Giustiniano in poi, è un tantino sopra le righe definire “personale ed arbitrario” quanto praticato tranquillamente da almeno quindici secoli (e comunque lo sdegno del prof. Monti va girato a Giustiniano). Che, se poi si volesse paventare che potrebbe dare il via libera a pretese infondate (ossia basate su crediti incerti o ancora non esigibili) è chiaro che questo non è consentito né prescritto dalla vigente disciplina giuridica della compensazione, neanche tra privati.

In realtà nell’uscita del premier appare chiaro il retropensiero: se si ammette la compensazione anche con i crediti extratributari, il gettito diminuisce. Ma è (anche) con ragionamenti del genere che siamo arrivati ad avere il deficit astronomico che abbiamo: perché, al contrario, pagare i debiti fa calare il deficit (che è la somma dei debiti) esistente, anche se, nel breve periodo può creare problemi di cassa; per risolvere i quali la soluzione non è non pagare (non estinguere) le obbligazioni passive (i debiti), ma commisurare le spese alle disponibilità. Anzi i debiti non pagati, hanno il brutto difetto di aumentare più del saggio d’interesse con cui si remunera il creditore, per via di spese legali, danni ulteriori, interessi e così via, incrementando il deficit reale. Non sono un risparmio, ma un cattivo affare.

Ma anche gli altri partecipanti al dibattito non hanno contribuito a chiarirlo. Ad esempio l’on. Alfano che ha parlato di compensazione tra  lo Stato e gli imprenditori. Dichiarazione dove se si capisce la sollecitudine del segretario del PDL per il bacino elettorale, non si comprende per quale ragione, tra tutti i creditori dello Stato, gli imprenditori dovrebbero avere un trattamento preferenziale. Quello che verrebbe così negato a pensionati, dipendenti, professionisti, ecc. ecc. (non meno meritevoli degli imprenditori); perpetuando quel cattivo modo di governare che si concreta non nel trattamento uguale per tutti (coloro che si trovano in quella situazione) ma nella distribuzione di privilegi per categorie; prassi che tanti anni fa un guru del comunismo d’antan come Pietro Ingrao chiamava argutamente “la strategia delle mance”. Le quali, quindi, inevitabilmente suscitano l’invidia (e financo il montiano “sdegno”) tra gli esclusi, motivandoli a chiedere anch’essi il loro “backschish”. Sarebbe stato meglio per il PDL chiedere che si applicasse al rapporto debiti/crediti tra cittadini e Stato la disciplina comune, cioè quella del codice civile. Alla stessa prassi si è adeguata la dr.ssa Marcegaglia che, ratione officii, preferisce alla compensazione l’aumento degli aiuti alle imprese.

La fine è stata piccola, piccola (per ora): invece della compensazione, abbiamo avuto l’accelerazione del rimborso IVA per le “partite IVA”. Cioè una disposizione particolare per una categoria particolare. L’unica cosa buona è che tali rimborsi (pare) saranno fatti corrispondendo titoli di Stato, cioè un modo promettente di pagamento che ricorda da vicino, come da me scritto qualche settimana orsono, la “finanza creativa” di Schacht negli anni ’30. Ciò non toglie che per un liberaldemocratico vale la regola di Rousseau: che la legge dev’essere generale sia per chi decide sia su cosa decide: “allora la materia sulla quale si statuisce è generale come la volontà che decide”. Cosa che sarebbe capitata se la decisione fosse stata di togliere il privilegio del debitore (lo Stato) ed applicare la disciplina generale (codicistica). Ma purtroppo manca ancora tanto alla classe politica  italiana per diventare (quando?) la hegeliana “classe generale”.

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