Dalla costituzione plurale della libertà scaturisce la sua natura tutt’altro che monolitica la quale suscita, ad ogni passo, confronti e dibattiti di notevole rilievo teorico e pragmatico.“Ogni concezione della libertà deriva da qualche idea di io, di persona, di uomo”, afferma Isaiah Berlin (1908-1997) che nella sua lunga vita di filosofo e di ‘storico delle idee’ ha sempre considerato la sua ispirazione politica liberale come mai compiuta ma in continuo divenire. La disponibilità intellettuale di Berlin, propria di un vero liberale, gli ha permesso di essere un testimone ‘aperto’ di un secolo travagliato, il Novecento, invaso dalle ideologie e dai totalitarismi che hanno messo a dura prova il liberalismo.
Evitando ogni interpretazione moralistica della libertà, poiché il significato di questo termine “è così poroso che non c’è praticamente interpretazione che non consenta”, Berlin definisce la libertà un “termine proteiforme” al quale si possono attribuire “duecento e più sensi” ma si limita ad elaborarne due: la libertà da qualcosa (libertà negativa) e la libertà di fare o essere qualcosa (libertà positiva), una distinzione che è diventata paradigmatica all’interno della scienza politica contemporanea.
Nel suo saggio Two Concepts of Liberty (1958) – un classico del liberalismo contemporaneo che corrisponde al testo della lezione inaugurale tenuta dall’autore ad Oxford all’interno del corso di Teoria politica – Berlin definisce, hobbesianamente, ‘libertà negativa’ l’assenza di limitazioni o interferenze nei riguardi di ciò che un soggetto è capace di fare: “Liberty is absence of impediments of motion”, afferma Hobbes nel De Cive. In pratica, maggiore ‘libertà negativa’ per Berlin vuol dire minori impedimenti e restrizioni delle possibili azioni del soggetto.
Berlin associa poi la ‘libertà positiva’ con l’idea della padronanza di stessi, ossia la capacità di autodeterminazione, essere padroni della propria esistenza. Berlin considera entrambi i concetti di libertà legittimi e validi ideali umani ma sottolinea che sotto l’influenza di Rousseau, Kant e Hegel (sostenitori del concetto positivo di libertà) i filosofi europei della politica hanno spesso confuso la libertà (positiva) con le forme di disciplina e di imposizione politica; in quest’ottica il concetto positivo di libertà si è rivelato, molto spesso, fonte di deplorevoli abusi.
Nel XIX secolo le nozioni di libertà positiva sono state usate, non a caso, per difendere il nazionalismo, l’autodeterminazione e l’idea comunista del controllo collettivo sulla vita degli uomini. Berlin sostiene che l’adesione a tale linea di pensiero ha trasformato, come per paradosso, le richieste di libertà in richieste di controllo e di disciplina collettiva ritenute necessarie per l’autocontrollo o l’auto-determinazione delle nazioni, delle classi sociali, delle comunità democratiche e, addirittura, dell’umanità intera. Quindi per Berlin libertà positiva e totalitarismo sono concetti intrinsecamente legati.
La libertà negativa, al contrario, rappresenta una diversa (di certo più sana) interpretazione del concetto di libertà. Coloro che prima di Berlin hanno proposto questa definizione (Bentham e Mill) sostenevano che la restrizione e la disciplina fossero l’antitesi della libertà, e costoro non erano affatto propensi a confondere libertà e restrizione, come fanno i portavoce del totalitarismo (di tutti i tempi).
Isaiah Berlin è stato uno degli esponenti più rappresentativi della generazione di filosofi politici di Oxford e nel secondo dopoguerra ha influenzato profondamente il dibattito pubblico nel Regno Unito e non solo. Noto in particolare per i suoi studi di storia delle idee, Berlin è un esponente di primo piano del liberalismo contemporaneo; ad ispirare le sue riflessioni sulla libertà (e sul pluralismo) non sono esclusivamente le preoccupazioni politiche ma anche una ferma opposizione nei confronti di una spiegazione deterministica della storia, una predisposizione scientifica che risale agli anni della sua formazione nell’università di Oxford degli anni Trenta, corroborata dal confronto critico con i colleghi J.L. Austin e A.J. Ayer. In questo periodo Berlin matura le convinzioni che ispireranno i suoi scritti negli anni del dopoguerra e in particolare le sue critiche al marxismo.
Berlin considera la distinzione tra ‘libertà negativa’ e ‘libertà positiva’ come la ‘chiave di volta’ per interpretare lo sviluppo del pensiero liberale e per ricostruirne gli esiti. La libertà negativa è la matrice di ogni forma di libertà che non vuol dire però poter fare ‘qualsiasi’ cosa, bensì non essere impediti nel fare qualcosa: libertà è quindi ciò che Hobbes nel Leviathan definisce “the absence of external impediments”.
La libertà positiva intesa sia come autocontrollo dell’individuo sia come la sua capacità di agire secondo ragione è per Berlin fonte di malintesi e di significati devianti del termine ‘libertà’. Nel momento in cui si pone l’accento sulla dimensione collettiva universale, ad esempio, si può arrivare a sostenere che sia giusto costringere una persona ad essere libera, limitando così la sua libertà negativa per promuoverne quella positiva. In questa deriva Berlin legge una grave distorsione del concetto di libertà che individua come una delle cause dell’emergere di tendenze totalitarie all’interno del comunismo, un movimento politico che aspirava all’emancipazione degli esseri umani dai legami imposti dalla divisione del lavoro e dalla struttura di classe della società, accentuando la libertà positiva (‘libertà di’) e interpretandola come azione conforme ai dettami di una ragione idealmente oggettiva.
Berlin difende la dimensione “genetica” del concetto di libertà e precisa che il senso fondamentale del termine è quello di libertà dalle catene, dalla prigionia, dalla schiavitù; egli difende inoltre il concetto di libertà come ‘governo razionale del sé’: “Io possiedo ragione e volontà, concepisco i miei obiettivi e desidero perseguirli; ma se mi si impedisce di raggiungerli, non mi sento più padrone della situazione. Poso esserne impedito dalle leggi della natura, da fatti accidentali, dalle attività dell’uomo o dalle conseguenze spesso involontarie delle istituzioni umane […] Cosa devo fare per non esserne schiacciato? Devo liberarmi dai desideri che so di non poter soddisfare”.
In questa prospettiva, lottare per la libertà significa impegnarsi per rimuovere gli ostacoli che non permettono alla libertà di dispiegarsi nella società degli individui, mentre combattere per la libertà personale comporta tentare di rimuovere le interferenze, lo sfruttamento, la riduzione in schiavitù da parte di chi vuole imporci i propri scopi.
La libertà negativa si colloca così in una posizione primaria nello schema concettuale di Isaiah Berlin in quanto essa, appartenendo ad una dimensione fondamentale dell’esperienza, è la matrice di ogni altra forma di libertà. Berlin sottolinea che qualsiasi interpretazione del termine ‘libertà’ dovrebbe includere almeno un minimo di libertà negativa.
La ricostruzione storica e uno sguardo al contesto in cui Berlin scrive può rendere più chiaro il quadro concettuale prefigurato dall’autore: la tradizione politica nata dall’illuminismo – sviluppatasi poi nelle forme storiche del liberalismo e del socialismo – era sopravvissuta alla Seconda guerra mondiale ma, nel contempo, era attraversata da una profonda crisi interna. Liberali e socialisti, divisi da sistemi politici e alleanze militari, sostenevano letture diverse del valore ‘libertà’: da un lato, la valorizzazione della libertà negativa come assenza di interferenze, dall’altro, l’enfatizzazione della libertà positiva intesa come accordo con la volontà popolare ritenuta superiore rispetto a quella individuale. La distinzione tra libertà negativa e libertà positiva serve quindi a Berlin per tentare di spiegare una concreta opposizione politica, economica e militare del suo tempo che egli considera radicata proprio nel diverso modo di intendere il medesimo valore ‘libertà’. Due versioni della libertà che la storia ha confermato incompatibili e lo stesso Berlin ricostruisce, su questa via, lo scenario sul quale ha scritto il suo saggio: “Penso che esso trascenda le questioni del suo tempo, anche se non posso negare che l’esistenza dell’Unione Sovietica fu in parte uno stimolo per le mie critiche della libertà positiva”.
La libertà è di certo un valore fondamentale sia per i liberali sia per altri movimenti politici ma non è identico il modo di intendere la libertà; la distinzione operata da Berlin aiuta a focalizzare questo dissenso. In questo modo Berlin introduce un aspetto che si rivela fondante nelle sue argomentazioni, ossia la mancanza di coerenza interna delle tradizioni intellettuali tanto che dalla stessa radice culturale si sviluppano, molto spesso, modi incompatibili di intendere i medesimi valori e ciò può avvenire anche all’interno di una stessa cultura. Berlin – sulla scia di Johann Gottfried Herder (1744-1803) e prima ancora di Giambattista Vico (1668-1744) – sostiene così che il ‘pluralismo dei valori’ sia un elemento fondante della ‘storia dell’umanità’ e, più concretamente, per la convivenza civile.
Il ‘pluralismo di valori’ è l’altra idea per cui il saggio di Isaiah Berlin del 1958 è oggi considerato un classico del liberalismo. Il conflitto tra due diverse interpretazioni della libertà sottolinea l’impossibilità di comporre tutti i valori in un insieme monolitico in modo che essi siano congiuntamente soddisfatti: “Esiste un grande divario tra coloro, da una parte, che riferiscono tutto a una visione centrale, a un sistema più o meno coerente o articolato, con regole che li guidano a capire, a pensare e a sentire – un principio ispiratore, unico e universale, il solo che può dare un significato a tutto ciò che essi sono e dicono –, e coloro, dall’altra parte, che perseguono molti fini, spesso disgiunti e contraddittori”. In pratica immaginare una società perfetta in cui non c’è alcun conflitto tra diverse interpretazioni della libertà, oppure tra libertà e uguaglianza, è per Berlin assolutamente utopistico.
La connessione tra pluralismo e libertà è il punto di forza del pensiero di Isaiah Berlin. Contrario a qualsiasi forma di autoritarismo e ad ogni tipo di uniformità imposta dall’alto (Stato, partito, entità religiose), forte di questa convinzione e in sintonia con il pensiero liberale, egli si propone di difendere il diritto dell’individuo ad autodirigersi – ossia il diritto a non essere diretto – nel rispetto delle leggi, perché come afferma Montesquieu, un padre del pensiero liberale, l’esercizio della libertà è “il diritto di fare tutto quello che le leggi permettono”. La libertà liberale non è autogestione ma padronanza di sé e libertà d’azione del soggetto. La capacità di autodirigersi, inoltre, include l’autocontrollo, ossia il mantenimento del sé, e l’autoregolazione, ossia il mantenimento degli obiettivi, senza premere né sull’uno né sull’altro dei due aspetti ma mirando, al contrario, al loro equilibrio.
Isaiah Berlin pone così l’accento sul legame tra libertà e sovranità (dell’individuo) e ritiene che “bisogna creare una società in cui devono esistere dei confini della libertà che a nessuno può essere consentito di valicare”. Tutto ciò deve essere garantito da regole e princìpi ben definiti e ciò che questi princìpi “avranno in comune sarà il fatto di essere accettati così ampiamente, e radicati così profondamente nella natura effettiva degli uomini, quale si è sviluppata nel corso della storia, da risultare ormai parte essenziale di ciò che intendiamo per ‘normale essere umano’”. Nessun potere può essere assoluto, solo i diritti possono esserlo.
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