Ci sono film per i quali ti siedi sul tuo comodo sedile in posizione frontale rispetto al grande schermo, con aspettative, speranze, auspici e invece decidi di abbandonare prima dell’ultimo stacco, deluso, annoiato, talvolta assopito; ci sono film che scegli di vedere per la loro brillantezza, il loro brio, la loro vivacità, per il tema trattato, più leggero, più impalpabile, più estivo, ma che alla fine non ti lasciano quel gran ché, se non la convinzione di aver consumato due ore, senza trarne nulla di realmente costruttivo o di edificante; e ci sono film la quale durata imposta dal montaggio tecnico del regista è rivelatrice di una mera cifra numerica, perché la forza, la veemenza, la profondità della storia trattata si perpetuano nel post-proiezione, dopo i titoli di coda, ti accompagnano, ti seguono, ti fanno riflettere, ti emozionano, ti commuovono, ti segnano.
Come Despues de Lucìa, secondo lungometraggio del messicano Michel Franco, presentato nella sezione Un Certain Regard all’ultimo Festival di Cannes, dove ha ottenuto il massimo riconoscimento. Uno schiaffo cinematografico, violento, che fa male, al cuore come alla mente, una storia ruvida, di abuso e di furia, incentrata sui delicati temi della colpevolezza e della vendetta nel mondo adolescenziale.
Dove protagonista e vittima è Alejandra, tenera e graziosa sedicenne che in compagnia del padre cerca di superare il momento difficile da loro attraversato dopo la morte della madre, Lucìa appunto. Trasferendosi in una nuova città, nel Messico più profondo, con il peso del passato, ma con la convinzione di potersi pienamente calare all’interno del microcosmo adolescenziale del nuovo liceo. Ma le gelosie e le invidie delle compagne di scuola, sull’onda di una bravata notturna, complice uno smartphone, segneranno l’inizio di un turbine di reità ed espiazione, punizione e rivincita.
Usciti dalla sala non è facile assimilare, metabolizzare, riprendersi e ripartire come se niente fosse. Perché lo stile di Franco è affilatissimo, rigoroso, agghiacciante tanto quanto il più spietato Haneke, nel non mostrare la violenza in primo piano, frontalmente, ma nell’evocandola, sentendola perpetrarsi dietro il muro fragile di una casa lungo il mare, o di una porta che separa il tremendo silenzio di una ragazza emarginata, dalla cieca euforia adolescenziale che non si accorge del vuoto circostante.
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