La produzione manifatturiera italiana continua ad arretrare, scavalcata prematuramente da India, Brasile e Corea del Sud, incatenata da una mancanza di liquidità che è causa ed effetto del peggioramento del sistema creditizio, come nel più classico dei circoli viziosi.

Per quanto riguarda l’aspetto strutturale, la composizione del tessuto produttivo italiano, formato in prevalenza da piccole-medie imprese e con una percentuale di micro-aziende unica sullo scenario europeo, soffre da sempre di un basso livello di patrimonializzazione, condizione che nel tempo ha lasciato il sistema produttivo troppo esposto all’offerta di liquidità bancaria.

In questo scenario di crisi e di “feroce credit crunch”, come l’ha definito Confindustria nel suo recente rapporto annuale, la dipendenza dagli istituti di credito sta mostrando il suo effetto negativo sulla stabilità industriale, portando di fatto molte imprese solide ma illiquide al fallimento per motivi unicamente finanziari, che si sostituiscono a quel virtuoso processo di selezione naturale che dovrebbe essere fatto dal mercato sulla base dell’innovazione e della competitività del prodotto o del servizio offerto, andando ad indebolire la qualità di tutto il sistema produttivo italiano.

Si giunge così ai dati presentati da una ricerca della Bce dello scorso aprile (Survey on the access to finance of small and medium-sized enterprises in the euro area), che mostrano come la stretta del credito si stia facendo sempre più spietata per l’impresa italiana, con un trend tanto più negativo quanto sono minori le dimensioni delle aziende considerate: la percentuale di mancato accesso al credito per le micro-imprese italiane si attesta al 42%, contro il 28% delle piccole, con una media del 35% delle PMI italiane che si vedono negate la possibilità di un finanziamento.

Addirittura, secondo il FMI (Global Financial Stability Report), le previsioni per il 2013 sarebbero di un’ulteriore contrazione del creditodel 2,7%, contro una media europeadel 1,7% , mentre le simulazioni per Germania e Francia indicano una flessione rispettivamente dello 0,1 e 0,5%.

Già, perché a livello europeo, anche in Nazioni con un alto tasso di PMI come Francia e Germania, la stretta esiste ma non è paragonabile alla nostra, con un tasso di rifiuto di credito al 14% e 10%, che scende (nel caso tedesco) a solo il 3% per le piccole aziende.

In Italia si stanno scontando oggi i costi di una politica industriale ferma per troppo tempo e di una strategia bancaria troppo miope, impostata sugli schemi americani di riduzione del rischio, che non sono però efficaci, come si vede, nel contesto di scarsa patrimonializzazione italiano, ma anzi, si pongono trasversalmente ai tentativi di far ripartire il motore economico.

Un’ultima considerazione va fatta sulle tempistiche di pagamento della pubblica amministrazione: mentre in Italia i tempi medi continuano ad allungarsi (al primo trimestre 2012 la media è di 180 giorni) in Francia ed in Germania, per mantenere il parallelo, sono stati accorciati a 65 e 36 giorni.

Verrebbe da chiedersi per quale motivo le banche italiane, pur considerando ancora lo Stato un debitore affidabile, visto che da esso acquistano Bot e CCT in continuazione, non debbano invece considerare affidabili le imprese che vantano crediti nei confronti dello Stato (e non pochi, si stima tra i 60 ed i 100 miliardi di euro), tanto da evitare l’opzione pro-soluto, rifiutandosi di scontare i crediti da esse vantati.

E’ un controsenso in termini che affossa la credibilità delle scelte strategiche del settore creditizio italiano, e un passo avanti in questo senso sarebbe una forte dimostrazione, per i mercati ma soprattutto per le aziende stesse, di quella fiducia e stabilità di cui abbiamo tanto bisogno.

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