Si fa fatica di questi tempi a seguire le varie esternazioni di Berlusconi, che ne spara ogni giorno di più grosse e dà la netta impressione di andare ormai a ruota libera. Prendiamo l’euro: un momento enuncia pensosamente la verità rivelata secondo cui per  l’Italia la soluzione consisterebbe nel  tornare alla lira (la tesi non è neppure originale: l’hanno già lanciata Grillo e la Lega; ma si sa che al Cavaliere l’euro, questa sinistra creatura dell’arcicomunista Prodi e di un complotto tedesco per dominare l’Europa, proprio non va giù: quanto sarebbe facile, e divertente, per chi  in materia di finanze non ha mai guardato troppo per il sottile, liberarsi dai noiosi vincoli di bilancio, stampare la moneta che serve e fare ogni tanto qualche bella svalutazione: tanto, non sono i sudati risparmi dell’ex-Premier a essere in pericolo, quello che non è stato investito in serate allegre con ragazze di facile virtù, é ben protetto in proprietà immobiliari e conti all’estero).

Ora, con la stessa pensosità da statista impegnato, ha lanciato un’idea più inedita e, devo confessarlo, di una straordinaria brillantezza: i Paesi del Sud d’Euro dovrebbero obbligare i tedeschi  a rinunciare al rigore di bilancio e, se non sono  d’accordo, sia la Germania a uscire dall’euro.  Evidentemente, la considerazione che l’economia tedesca  rappresenta  un quarto dell’economia dell’Eurozona e che l’euro si regge sopratutto sulla sua forza, e senza la Germania dentro scenderebbe a valori  minimi (e, per esempio, l’energia ci costerebbe ben di piú) non lo sfiora neppure. Né lo preoccupa minimamente  (ammesso che lo sappia) che l’euro è nato da un accordo raggiunto al tempo della riunificazione tedesca, come mezzo per vincolare proprio la Germania all’Europa a scanso di future catastrofi del tipo di quelle che hanno insanguinato il continente e il mondo per due volte in un secolo: questi  trascurabili dettagli,  su cui hanno sudato statisti della taglia di Mitterrand e Khol, sono davvero secondari  di fronte alla spasmodica ansia di risalire una china irreversibilmente discesa e rimanere, comunque, a galla. E a questo proposito, pensiamo alla maniera erratica con cui l’ex-Presidente del Consiglio progetta il  proprio futuro.  Oggi fa capire che si mette da parte, domani dice che intende rimanere il grande regista del centro-destra, dopodomani, molto chiaramente, anticipa  che sarà lui il leader dei moderati italiani. E  il povero Alfano, che egli stesso ha creato dal nulla, è preso a tenaglia tra la ovvia speranza di contare qualcosa e l’ossequienza dovuta al padre-padrone. Ed è costretto a seguirne gli andirivieni e magari anche a fingere di prenderne  sul serio le estemporanee aperture, oggi a Montezemolo, domani a Rienzi.

Prendiamo, ancora,  la posizione di fronte al Governo Monti. Il Cavaliere ha senz’altro contribuito in modo determinante a farlo nascere (ed è stato uno dei pochi suoi gesti di responsabilità, anche se qualcuno potrebbe dire che non aveva molte altre  scelte), peró è evidente che non gli va giù e che, mentre lo sostiene a parole, fa quello che può per boicottarlo: basterebbe l’assurda tesi secondo cui esso rappresenterebbe, se non una violazione, almeno una sospensione della democrazia, come se il Governo non fosse nato nel pieno rispetto delle norme istituzionali e non avesse quindi  tutti i crismi della legalità repubblicana e democratica. E, se non bastasse, servirebbe guardare alla campagna che quotidianamente conducono contro il Governo dei Professori, con una nobile gara d volgarità tra di loro, i fogli di proprietà della famiglia Berlusconi, scaduti davvero a un livello che la dice lunga sullo spessore umano e culturale del vero editore.

E prendiamo, alla fine, le fabulazioni berlusconiane sui sondaggi che, lo si sa, ha sempre  usato secondo le proprie fantasie: oggi accredita al PDL il 20%, che non sarebbe comunque troppo glorioso per un Partito che in certi momenti ha toccato e superato il 30% e così si situerebbe allo stesso livello accreditato al movimento di Grillo; e superbamente ignora i sondaggi seri, che lo danno al 15% (come risultato evidente nelle ultime elezioni locali).  Leggendo i commenti  dei lettori di un grande quotidiano alle continue esternazioni berlusconiane, una mi ha colpito per la sua sintetica efficacia. Un lettore ha scritto solo una parola, in maiuscola e con tanti punti esclamativi: basta! Siamo, per fortuna, in un Paese libero e tutti hanno diritto di parlare: all’ex-Premier, responsabile certo non unico, ma rilevante, dello stato di crisi, politica e morale prima ancora che economica, del nostro  Paese, viene la voglia di chiedere che per un po’ si faccia dimenticare, si goda i suoi soldi e magari le ragazzotte di scarsa virtù, o pensi  ai processi in cui è ancora impigliato e dai quali gli auguriamo di uscire legalmente indenne, già che dal punto di vista morale la condanna è già pronunciata.

Per amore di verità e di giustizia,bisogna però aggiungere che  Berlusconi non è il solo – lungi da questo – a dare i numeri.  Che dire dell’ineffabile Vendola, che denuncia il fallimento,niente di meno, del modello economico occidentale (certo che quello sovietico fu un successo senza limiti); che dire del tribunoDi Pietro, che reclama  una Commissione parlamentare d’inchiesta, cioè altro dispendio di tempo, energie e denaro (in buona sostanza, altro inutile teatrino), per stabilire  se, venti anni fa, un Governo (tra l’altro di quel centro-sinistra  di cui l’ex-poliziotto-magistrato si dice parte) abbia condotto trattative con la Mafia, mettendosi così  sulla stessa lunghezza d’onda  di quel Gasparri che, con la sua cantilenante campagna contro i Governi Amato e Ciampi dello scorso secolo, cerca di far dimenticare di appartenere a un Partito in cui milita Dell’Utri e che porta su di sé le stimmate di mai chiariti rapporti tra il suo fondatore e l ‘onorata società.

Su  questo tema della trattativa  Stato-mafia, tuttavia, qualche riflessione un po’ più approfondita s’impone. I rapporti tra le istituzioni e la criminalità organizzata, in  Sicilia e in altre parti del Mezzogiorno, hanno una storia lunga e complessa. Per molto tempo, la Mafia è stata, se non accettata, perlomeno tollerata da uno Stato che probabilmente non aveva la forza di combatterla in modo efficace. Poi, col Fascismo,  è venuta la parentesi  del Prefetto Mori,quando il regime scoperse di non poter tollerare in Sicilia un vero contropotere alternativo al suo. Ma fu una parentesi relativamente breve e, contrariamente a quello che si pensa, non incise in modo profondo sulle strutture e il potere  dell’onorata società, e lo stesso Mori finì più o meno in disgrazia. Poi venne l’invasione americana dell’Isola e con essa la Mafia, strumento d’azione degli Alti  Comandi alleati, venne in qualche modo rivalutata e quasi ufficializzata. Questa situazione è durata  almeno quattro decenni ed aveva la sua ragione d’essere in una considerazione elementare: la Mafia controllava voti e sosteneva il Partito al governo ma poteva anche determinarnela sconfitta. Indipendentementedagli interessi di corrente che avrebbero portato Andreotti, Lima e altri, a cercarne il contatto e sostanzialmente a proteggerla (per quanto riguarda Andreotti, l’ampiezza e la stessa realtà di questo appoggio costituiscono  tuttora un mistero) la tolleranza delle istituzioni poteva venire, non certo giustificata, ma certo collocata in quel clima di contrapposizione al comunismo, che faceva premio su tutto il resto e della quale l’onorata società costituiva uno strumento. Al di là dell’opera benemerita di tanti magistrati e agenti dell’ordine, lo Stato fece, per decenni, poco per combatterla seriamente.

Non è casuale che un’azione più incisiva e vigorosa data dal momento in cui, con la caduta del Muro di Berlino e la fine del PCI, la Mafia perdeva la sua valenza politico-elettorale nell’Isola.  I Governi degli anni ’90 intrapresero dunque la strada di una legislazione dura e nell’insieme efficace, ma questo provocò una sanguinaria reazione della Mafia, che tentò di colpire lo Stato e la società civile nei suoi punti più delicati. Fu in questo clima, soprattutto dopo l’attentato di  Firenze e l’assassinio di Falcone e Borsellino, che alcuni esponenti delle istituzioni forse  immaginarono una specie di patto che, in cambio dell’alleggerimento del famoso articolo 41 bis sul carcere duro, consentisse di porre un limite, e forse un fine, a quelle stragi che venivano in una fase di grave crisi economico-finanziaria per il Paese. Fecero bene? Fecero male?  Personalmente ritengo che colla criminalità non si discute, non si tratta, la si combatte con tutto il peso, le risorse e la determinazione dello Stato, pur sapendo che è una guerra lunga, forse senza fine, in cui è però importante vincere le principali battaglie senza aspettarsi una vittoria definitiva.  Ma non mi sento di dire se la scelta attribuita soprattutto al Governo Ciampi e al Presidente Scalfaro avesse rilevanza penale o solamente, come tendo a credere, morale e politica. Mi sento tuttavia di dire che riaprire questa vecchia ferita oggi che lo Stato lotta con determinazione contro tutte le forme di criminalità organizzata, e gli eventuali responsabili di quelle decisioni sono morti, o vecchi e fuori del gioco politico, mi sembra un inutile spreco di energie.

E veniamo all’aspetto più delicato, quello che, coinvolgendo la più alta istituzione dello Stato, sta suscitando più discussioni.  La prima osservazione è che è davvero disgustoso che, in violazione di qualsiasi regola di segreto processuale e di rispetto della privacy, le intercettazioni (comprese quelle che riguardano i vertici del Paese) possano impunemente circolare sulla stampa. Chi ne è colpevole mi auguro ne paghi le conseguenze. La seconda questione è di sapere se c’è veramente una campagna deliberata contro il Capo dello  Stato. Tutto fa pensare che si e il leader dell’UDC l’ha attribuita a schegge della magistratura che cerca di impedire quanto possa diminuirne i poteri corporativi. Può darsi: certo all’origine delle filtrazioni, in questa repulsiva Italia dei misteri, c’è qualche magistrato o affine, e non è da stupire se ne fa portavoce  lo stesso Di Pietro. Ma non mi sembra irrilevante che a portare avanti la campagna contro Napolitano siano i noti fogliacci berlusconiani e leghisti, a cui Napolitano non è mai andato giù e che probabilmente mirano a colpire, attraverso di lui, quel Governo Monti che è la sua creazione. Ora, fanno bene le forze politiche responsabili a protestare la propria indignazione e il proprio rigetto contro qualcosa che, mirando a colpire il Capo dello Stato, colpisce il cuore stesso delle istituzioni e del Pese.  E fa benissimo il Presidente della Repubblica a esprimersi in forma chiara e pesante contro questa campagna calunniosa. Giorgio Napolitano è del resto uomo di tale correttezza, senso dello Stato, e rispetto della Costituzione e delle regole, che non credo che questo tipo di sordida campagna possa sfiorarlo. Quanto a Mancino, che è persona per bene ma con una molto forte considerazione di sé stesso e abituato per decenni a comandare, è umano che si sia lasciato prendere dal panico e abbia cercato freneticamente scorciatoie che avrebbe dovuto evitare. Mi sorprende il fatto che un funzionario del Quirinale e persino un Procuratore Generale della Cassazione lo abbiano in qualche modo incoraggiato.

Sarebbe davvero tempo che, di fronte a un’indagine giudiziaria, chiunque ne sia oggetto, fondatamente o no, si affidi solo alla forza della verità e alla capacità di un buon avvocato e non a maneggi indebiti e dietro le quinte (affidandoli, per peggiorare le cose, all’uso di quel telefono che in Italia,è diventato garanzia di pubblicità. Lo dico convintissimo che il Presidente, pur difendendo i suoi collaboratori, non possa esserne contento. E convintissimo, soprattutto, che non saranno le sbavature di qualche magistrato o politico in crisi di astinenza a poter scalfire l’immagine di uno dei migliori e più rispettati Presidenti della Repubblica che l’Italia abbia avuto dai tempi di Einaudi.

© Rivoluzione Liberale

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