In pieni Euro2012 di calcio, l’associazione Human Rights Watch ha appena pubblicato un rapporto di 150 pagine sulle condizioni di lavoro degli operai, quasi tutti immigrati, che si adoperano giorno e notte nella costruzione del paradiso artificiale dedicato al calcio, che dovrà accogliere la Coppa del Mondo del 2022 in Qatar. Se gli investimenti finanziari sono stimati arrivare a 160 miliardi di dollari, non è possibile valutare il costo umano di questo faraonico progetto e del quale il ricco emirato sembra poco preoccuparsi.
Una Coppa del Mondo comprata a suon di petrodollari e grandi manovre di corridoio orchestrate da ex star del calcio, degli stadi smontabili, costruiti nel mezzo del nulla, climatizzati a energia solare. Un evento mondiale organizzato in un Paese grande come metà della Toscana, la cui passione per il calcio fluttua a seconda dell’umore dello Sceicco Al Thani e dell’andamento degli investimenti del fondo sovrano del Qatar. Il costo dell’organizzazione del più grande evento sportivo del pianeta viene stimato dagli analisti finanziari 160 miliardi di dollari, dei quali 124 per gli impianti sportivi e 36 per la rete di trasporti. Da sola, la climatizzazione degli stadi, fondamentale per risolvere il problema “calore”, dovrebbe costare 35 miliardi di euro. Inoltre, nascerà dal nulla una città: Lusail. Sovrasterà lo stadio che accoglierà la partita di apertura ela finale. Miliardiche non vedranno certamente gli operai immigrati, che non avranno peraltro neanche la possibilità di assistere al calcio d’inizio di una sola partita, ma che già si affannano nella costruzione laboriosa di questo progetto sfarzoso, sopportando temperature disumane in condizioni di lavoro deplorevoli.
Il Qatar presenta una situazione demografica unica al mondo. I lavoratori immigrati rappresentano il 94% della popolazione del Paese. La percentuale più alta al mondo. E il Paese, che conta 1,6 milioni di abitanti, pensa di assumerne ancora, fino a raggiungere la cifra di un milione di lavoratori immigrati nel corso del prossimo decennio per portare a termine, senza contrattempi , le infrastrutture necessarie ad accogliere gli “ospiti” attesi per la Coppa del Mondo. Nel suo Rapporto,la Human Rights Watchesamina il sistema di reclutamento e di assunzione, vera fonte di sfruttamento di questi lavoratori arrivati per la maggior parte dal sudest asiatico. Non è questione di far faticare un nativo del Qatar. Confisca del passaporto, strettissimo controllo degli impiegati, restrizioni nel diritto di reimpiegarsi altrove, senza contare gli ostacoli alla comunicazione di lamentele o querele ai servizi governativi, retribuzioni non pagate, ritenute d’acconto illegali, campi di lavoro sovraffollati e senza copertura sanitaria. Si è costatato che il Qatar, visto dalle nostre parti un “benefattore” finanziario, un investitore di grande pregio, possiede un codice del lavoro assolutamente restrittivo: impossibile cambiare senza l’autorizzazione del proprio datore di lavoro – una clausola di “non concorrenza” per gli operai sfruttati – non c’è ombra di dubbio. Stessa trafila per lasciare il Paese, il lavoratore deve ottenere un “permesso” da parte del suo “padrone”. La linea di demarcazione con la nozione di lavoro forzato non è lontana dall’essere varcata. Nella regione, solo l’Arabia Saudita ha creato una sorta di “permesso di uscita”.
Il sistema di reclutamento è originale. I candidati devono pagarsi le spese d’ingaggio, il cui ammontare si stima vada dai 700 ai 3000 dollari, il tutto spesso pagato tramite prestiti con tassi d’interesse che arrivano al 100% l’anno… con la minaccia che, se non si riesce a star dietro alle spese, la banca ha il diritto di cacciare il resto della famiglia da casa. Così, sono in molti ad ipotecare la casa nel loro Paese d’origine per trovare lavoro in Qatar. Se l’Organizzazione Internazionale del Lavoro autorizza la libera associazione, le leggi del Qatar vietano l’adesione a qualsiasi Unione. Se è vero che recentemente il Governo ha proposto la creazione di un’Unione dei lavoratori, questa non soddisfarebbe nessuna delle esigenze minime di libera associazione, visto che i posti chiave sono riservati a cittadini del Qatar.
Rispondendo in tono perentorio a Human Rights Watch, i funzionari del Ministero del Lavoro hanno replicato che non avevano ricevuto nessuna lamentela per “lavoro forzato” ed è inconcepibile pensare che esista una simile situazione in Qatar, dove il lavoratore può recedere dal contratto, tornare nel suo Paese quando e come vuole e il datore di lavoro non può forzarlo a rimanere nel Paese contro la sua volontà. Il Rapporto affronta anche il tema sicurezza nell’industria delle costruzioni, mettendo in risalto la preoccupante divergenza di notizie tra il numero di decessi segnalati dai lavoratori e il numero ufficiale del Governo. Per esempio, l’Ambasciata del Nepal ha avuto notizia della morte di 191 lavoratori nepalesi nel 2010, e l’ambasciata indiana 98. Molti decessi sarebbero avvenuti per insufficienza cardiorespiratoria dovuta al gran caldo. Al Ministero del Lavoro non risultano che sei decessi nel corso degli ultimi tre anni.
Il Qatar, che si è impegnato a migliorare le condizioni di lavoro dei suoi operai, senza fornire però indicazioni precise sulle riforme possibili, non è il solo in causa, il Comitato organizzatore e la FIFA avevano promesso al momento dell’assegnazione della Coppa del Mondo di portare particolare attenzione ai diritti dei lavoratori. Giudicata complice di una mondializzazione sleale, nel 2010 alcuni sindacati avevano tentato di mostrare un cartellino giallo durante una riunione dell’ONU per denunciare l’apatia della FIFA di fronte al non rispetto del diritto del lavoro durante i preparativi della Coppa del Mondo in Sudafrica. Se è vero in alcuni Stati la vita umana ha un “valore” diverso, perché basati su una cultura diversa, oggi, nell’Era della globalizzazione non si può più “chiudere un occhio”, neanche in nome del detto “business is business”. E questo vale non solo in Qatar.
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