Le buone notizie, specie di questi tempi, sono gradite, ancor più quando contrastano coi pessimismi della vigilia. Confesso tuttavia che il buon risultato del vertice europeo non mi è giunto inatteso (molto meno, comunque, della vittoria degli Azzurri a Varsavia) e per questo mi ero tenuti stretti i miei pochi euro, respingendo consigli suppostamente “esperti” di convertirli in dollari. Si trattava di un ottimismo non di maniera, ma fondato su una esperienza piuttosto lunga di cose europee.
Ho visto dal di dentro almeno 20 vertici europei, in momenti di forse minore crisi economica, ma anche di grave tensione politica (basti pensare ai problemi posti dalla riunificazione della Germana e dall’ingresso dei Paesi dell’Est), vertici a cui partecipavala signora Thatcher, di fronte a cui Angela Merkel è un tenero agnellino; e la norma è che, dalla dialettica tra posizioni contrapposte presentate come irrinunciabili, si arrivi quasi sempre a compromessi più o meno incisivi ma che riflettono una realtà sistematicamente sottovalutata dal superficialismo dominante: la volontà condivisa da tutti gli attori principali del gioco europeo di non arrivare mai a un punto di rottura che ponga seriamente a rischio l’Europa. E poco importa se all’accordo ci si arriva al finish, magari a tarda notte, secondo ben collaudate liturgie comunitarie che servono in realtà per coprire le spalle ai protagonisti maggiori, ciascuno dei quali può poi dire al proprio pubblico domestico di essersi battuto fino al limite e di avere portato a casa un buon risultato. Perché è vitale che il gioco europeo non abbia né vincitori né sconfitti evidenti. E tutto questo dipende da una ragione semplice ma che sistematicamente sfugge ai soloni dell’economia ( tipo Paul Krugman), a tanti giornalisti (più tesi a rincorrere i titoloni drammatici che fanno vendere) e, beninteso, ai politici di basso conio incapaci di comprendere cose che volano più in alto del loro piccolo pollaio: l’integrazione europea e la moneta unica che ne costituisce la maggiore realizzazione ed espressione, sono frutto di una volontà politica nata all’indomani di una terribile guerra fratricida e riaffermata ai tempi della riunificazione tedesca e dell’apertura all’Est. Una volontà strategica e di lungo termine, che alcuni hanno cercato, e cercano (in modo miope o peggio) di rimettere in causa, ma che non è stata veramente rinnegata neppure nei tempi bui dell’ostruzionismo gaullista o thatcheriano. Di questa volontà sono motori i Paesi che più contano: la Francia, che non può permettersi una Germania che si allontani dall’Europa e torni ad essere una minaccia per tutti; la Germania, che al livello dei politici responsabili sa bene di non poter tornare a risollevare vecchi fantasmi e si rende conto che l’Europa unita le giova; in Italia e in Spagna, tutti quelli (e sono ancora, per fortuna, la maggioranza, anche se una maggioranza messa in forse da demagogie e populismi di vario conio) che sanno bene che al di fuori dell’Europa ci sarebbe per noi un avvenire precario, di finanza allegra ed economia di tipo “mediterraneo”; e pare esserne consapevole oggila stessa Inghilterra, se è vero che un premier conservatore come David Cameron mostra di voler giocare appieno il gioco europeo.
Vedremo come si concreteranno nei prossimi giorni le decisioni di Bruxelles e se saranno sufficienti a dare un po’ di stabilità ai mercati. Da esse emerge comunque una chiara volontà di non cedere al disfattismo e non seguire la china della facilità, di non lasciarsi andare al’eurosconforto di moda e di mostrare al mondo chela vecchia Europavuole continuare a esistere e a contare.
Vediamo di trarne alcune semplici conclusioni. La prima è che tutti quelli che, a casa nostra, hanno puntato su un fallimento europeo per costruirvi improbabili sogni di fughe verso l’autarchia e la lira, si sono sbagliati. Vedo dai vari twitter che non pochi esponenti del PDL manifestano attaccamento all’euro e non paiono disposti a seguire il pifferaio Berlusconi sulla china delle sue trovatine elettorali; piacerebbe poter dire lo sesso di Alfano, ma in lui il riflesso pavloviano è sempre di dare ragione al padrone.
La seconda conclusione riguarda la Germania: ho già espresso su queste colonne il fastidio che mi causava la facile e volgare moda antitedesca diffusa da noi (anche Roberto Benigni, noto luminare dell’economia, ha detto la sua sulla Merkel: ci manca la dotta opinione di Celentano). Poche voci si sono levate a contrastare questo andazzo, e tra queste voglio segnalare quella di un economista, Alasina, il quale ha osservato che vituperare Berlino è solo un modo per darci un alibi per le nostre inconsistenze e i nostri ritardi. A me è venuta a mente una notissima favola di La Fontaine: per decenni noi, la Spagna,la stessa Franciae praticamente tutti i Paesi del cerchio sud, ci siamo comportati da cicale, con governi che spendevano più di quello che potevano, accumulando debiti soffocanti; mentre i Paesi nordici, magari meno creativi, ma più seri, Germania in testa, si sono comportati come le formiche, rimettendo in ordine le proprie economie e i loro conti pubblici. Ora, le cicale chiedono alle formiche di aiutarle a uscire dai pasticci in cui si sono cacciate, in nome di una solidarietà europea certo sacrosanta, ma un po’ a senso unico (ricordiamolo: nessun Paese europeo ha partecipato di tasca propria all’ingente spesa provocata dalla riunificazione della Germania; i tedeschi se la sono finanziata da soli, tra lo scetticismo e la non troppo celata ostilità di altri europei). Le formiche, tutto sommato, sono disposte a dare una mano, anche perché capiscono che a lungo termine gli conviene; chiedono però, e devo dire che mi sembra ragionevole, che non si superino certi limiti e che si stabiliscano regole che permettano di pensare che i soldi spesi servano a qualcosa e non a perpetuare nel tempo l’abitudine alla finanza allegra; e credo proprio che se fossimo noi ad aprire il portafoglio, porremmo anche noi condizioni molto simili. La Cancelliera ha ceduto su alcuni punti, che parevano irrinunciabili, e sono davvero essenziali, mantenendo qualche “nein” (soprattutto sugli eurobond, diventati una specie di mantra per chi ha poche idee per il ritorno alla crescita). Bene per lei e bene per tutti quelli che ritengono che la crescita non debba fondarsi su nuove emissioni di carta. Smettiamola dunque di demonizzare questa Germania della quale non possiamo fare a meno e smettiamola di concepire i rapporti Roma-Berlino nei termini di un match di football: un po’ di tifo e un po’ di orgoglio nazionale vanno anche bene, ma la vita reale è un’altra cosa, e confesso che ho sorriso leggendo fogli normalmente seri parlare di un due a zero Italia-Germania, e altre esaltare i tre “superMario” italani, mettendo il pur meritevolissimo Balotelli sullo stesso piano di Monti e di Draghi: va bene che un po’ di allegra evasione ogni tanto serve a ridare fiato.
La terza conclusione riguarda Monti e la tenuta del suo Governo, che giustamente viene ritenuto rafforzato dal successo europeo (speriamo però che l’ineffabile Cavaliere non ne tragga ragione di una gelosa vendetta). Si viene giustamente mettendo in rilievo la tecnica negoziale seguita dal nostro Premier a Bruxelles, anche perché non eravamo troppo abituati a governanti capaci di negoziare duramente e, se del caso, usare poteri di veto. A me questa tattica non è parsa nuova, conoscendo da tempo lo stesso Monti e la sua collaudatissima esperienza di trattative europee. Si è anche rilevato, giustamente, che la sua mano è stata più forte a Bruxelles per l’appoggio ricevuto alla vigilia dai partiti della sua maggioranza, ed è certo che, se si fosse presentato con un fronte interno diviso e precario, avrebbe avuto minori possibilità di successo (come poche ne avrebbe avute senza l’ottimo gioco di squadra sviluppato con Francia e Spagna). Ma la constatazione principale è che Monti si è potuto avvalere del prestigio e autorevolezza riconosciuti dai suoi pari, che hanno ridato credito all’Italia e ci hanno permesso di essere tra i protagonisti vincenti edi stabilire in qualche modo un nuovo equilibrio europeo: non più quello basato sulle due sole gambe di Francia e Germania, ma quello ben più stabile e produttivo che poggia su quattro gambe, che rappresentano le quattro maggiori economie dell’Eurozona: Francia, Germania, Italia e Spagna. Auguriamoci che questo nuovo assetto si mantenga anche in futuro, ma non facciamoci troppe illusioni: esso dipende non tanto da un ruolo ormai acquisito dall’Italia, quanto dalla personale autorevolezza di un Governo destinato purtroppo a non durare nel tempo e che sarebbe facilmente distrutta se al timone tornassero gli orfanelli di Berlusconi e di Prodi, con la corte dei miracoli dei vari Vendola, Grillo,Di Pietroe Maroni.
In conclusione,la vecchia Europaha battuto un colpo, ma il divenire europeo non è mai concluso una volta per tutte e resta aperto allo spirare dei venti della demagogia e del populismo di destra o di sinistra. È dunque un bene che tutte le persone responsabili, liberali in prima linea, devono difendere con le unghie e coi denti, convinti che, al di fuori di una Europa unita, solidale e forte, ci sia ben poco spazio per le nostre piccole patrie e ben scarso futuro per i nostri figli.
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Caro ambasciatore, condivido integralmente quanto da lei scritto, con puntualità di argomentazioni, frutto di una lunga esperienza, ma anche con una chiarezza espositiva, che consente ai non esperti di comprendere i complicati meccanismi delle trattative europee, che hanno consentito di arrivare ad un risultato utile non soltanto per i Paesi in difficoltà e sotto attacco da parte della speculazione finanziaria, ma a tutta l’UE. Paradossalmente la difesa dell’Euro riguarda la stabilità dell’intera Unione e la sua stessa sopravvivenza. L’Italia, grazie al prestigio di Mario Monti, ha ottenuto forse dei vantaggi immediati di carattere finanziario, ma principalmente ha avuto l’occasione di riprendere il ruolo che le compete di terza economia europea ed il prestigio di grande Paese fondatore. Da oggi la difficoltà consiste nel ricominciare a tessere un rapporto solido con la Germania, che potrebbe temere l’isolamento, senza trascurare un’azione lungimirante con un Regno Unito che, dopo le bizzarrie del conservatore Cameron, prima o poi, dovrà cercare una sponda mediterranea per uscire da una posizione di autonomia, che non può durare a lungo. L’attuale Presidente del Consiglio sa bene tutto questo e si muoverà nel modo giusto, ma cosa avverrà dopo? Questa è la preoccupazione dei liberali.