La Spending review oggi pone il governo di fronte a scelte difficili sui settori dello Stato in cui si debba andare a tagliare e compito dei liberali è senz’altro quello di dare indicazioni, senza falsi pudori, su come e dove agire per una efficace riduzione della spesa pubblica, necessità oggi improrogabile se davvero si vuole contenere la pressione fiscale.
Una delle maggiori voci di spesa, e di deficit pubblico, è senz’altro la sanità e la necessità di ridurre i costi dello stato passa anche da una radicale riforma di questo settore, ma si può ridurne i costi senza demolirne i servizi? Secondo me si, anche se non è una strada semplice e priva di ostacoli. Innanzi tutto c’è da notare come gran parte dei costi della sanità non viene dalle prestazioni sanitarie o dalla spesa dei medicinali, ma dal costo di apparati amministrativo – burocratici cresciuti enormemente negli ultimi decenni, soprattutto dopo l’aziendalizzazione delle Usl, e che pesano in modo esagerato sui costi totali. Una crescita di costi che presenta anche differenze sostanziali da regione a regione, ed anche questo è indice di un ricorso abnorme alla moltiplicazione di queste strutture, spesso tutt’altro che essenziali.
Uno dei principali motivi per i quali questi apparati burocratici, compresa la moltiplicazione dei dirigenti e specie di quelli di grado e stipendio più elevato, è esplosa va ricercata nel fatto che spesso le aziende sanitarie si sono trasformate in centri di potere politico ed economico a servizio dei partiti. La possibilità delle regioni, normalmente tramite gli assessori alla sanità, di nominare con quasi totale discrezionalità i direttori generali delle aziende è una delle cause principali di questa distorsione anomala. I direttori generali hanno infatti una sorta di potere assoluto e devono solo rendere conto a chi li ha nominati, non essendo sottoposti al controllo di alcun altro livello istituzionale. Questo taglia fuori dal controllo sul funzionamento delle Ausl non solo le opposizioni politiche, ma anche le rappresentanze professionali e sindacali di chi la sanità la produce davvero, medici e infermieri in primis. La mancanza di controllo ha trasformato le Ausl in strumenti di moltiplicazione del potere economico e politico ad esclusiva discrezione degli assessori regionali e dei loro partiti, senza che nessuno sia in grado di esercitare un efficace controllo prima che sia troppo tardi. E così ci si ritrova con aziende che improvvisamente scoprono catastrofici buchi di bilancio, come è successo recentemente alla Ausl di Forlì, per citare un caso delle mie parti. La nomina con logiche politiche di direttori generali e dirigenti poi fa spesso preferire la “affidabilità” politica alla competenza e ci si ritrova quindi con manager che manager in effetti non sono, ma piuttosto funzionari di partito con competenze tecniche molto limitate.
C’è quindi, sul versante burocratico amministrativo spazio per tagli e risparmi consistenti così come c’è margine per ampliare il ricorso alle prestazioni sanitarie private convenzionate, che normalmente consentono di contenere i costi circa del 20% rispetto alle prestazioni pubbliche. Anche nel rapporto col privato però non si può lasciare in mano ad assessori regionali e direttori generali da questi nominati il totale controllo della situazione. Anche qui infatti possono nascere distorsioni, come le indagini sulla sanità della Lombardia stanno mettendo in luce oggi, dove la corruzione può insinuarsi in modo assai pericoloso e costoso.
E’ necessario un controllo quindi più collegiale nella gestione delle aziende, anche dal punto di vista politico, ed un maggiore coinvolgimento degli operatori della sanità, medici ed infermieri prima di tutto, nella gestione stessa delle strutture sanitarie, perché chi meglio dei professionisti del settore può sapere cosa sia davvero necessario e cosa invece no?
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No!
“E’ necessario un controllo quindi più collegiale nella gestione delle aziende, anche dal punto di vista politico, ed un maggiore coinvolgimento degli operatori della sanità, medici ed infermieri prima di tutto, nella gestione stessa delle strutture sanitarie, perché chi meglio dei professionisti del settore può sapere cosa sia davvero necessario e cosa invece no?”
No all’assemblearismo!
Invece si a responsabilità in capo alle singole dirigenze: “padroni” di fare e disfare ed anche di pagare.
Critico, ma equilibrato.
Forse avremmo qualcosa da imparare dalla gestione tedesca.
I dirigenti, specie i direttori generali, sono già liberi di fare e disfare…ma non di pagare visto che devono rendere conto solo a colui (assessore regionale) che li ha nominati…e per il quale fanno e disfano.
Un maggiore coinvolgimento poi non significa assemblearismo, non so da dove lo si evinca, ma appunto quello, maggiore coinvolgimento…un primario deve poter essere in grado di decidere o co-decidere della gestione della struttura in cui esercita. I rappresentanti delle RSU devono essere coinvolti nelle scelte strategiche e non essere, come spesso oggi sono, o consenzienti o ignorati.