I recenti dati Eurostat sulla disoccupazione giovanile mostrano come l’Italia abbia nell’ultimo mese superato i valori massimi fin dall’inizio delle serie storiche in esame (1992), con un tasso di disoccupati pari al 36,2% contro una media europea del 22%.

Si tratta del definitivo sfondamento della soglia psicologica di accettabilità, che ha portato all’allarme lanciato in questi giorni dai mass media italiani, sebbene la situazione non fosse molto più rosea in tutto il biennio scorso. E tuttavia i dati rilanciati di giornale in telegiornale non sono sufficienti a comprendere la condizione dei giovani in cerca di lavoro, tantomeno a descrivere esaustivamente la falla strutturale del mercato lavorativo italiano.

In primo luogo, un dato che dovrebbe preoccupare più del tasso di disoccupazione giovanile (che dal 1992 ad oggi rimane tutto sommato in linea – crescente, ma in linea – con il tasso di disoccupazione della forza lavoro tra i 25 ed i 49 anni), è il tasso di attività, ossia la somma tra coloro che lavorano e coloro che cercano lavoro: questo tasso per i giovani italiani è spaventosamente basso, pari a solo il 28% del totale, metà del valore inglese e tedesco e tra gli ultimi in tutta l’Unione europea (la media è del 43%).

Ma il dato peggiore riguarda la cosiddetta fascia Neet, che comprende i ragazzi che non lavorano e non sono in formazione, scolastica od universitaria, e che è di poco inferiore al 20%, ancora una volta uno dei dati peggiori dell’Unione europea (la media è del 12%).

Il mercato del lavoro giovanile in Italia appare quindi cosi definito: nella fascia d’età 15-24 il 52% è in fase di formazione, il 19% non è in formazione nè in cerca di lavoro ed il 28% è attivo. Di questi ultimi il 64% trova lavoro ed il 36% rimane a casa.

Appare evidente così come il tasso che dovrebbe generare maggiore inquietudine non sia il 36% degli attivi che rimane a casa non trovando lavoro, ma la somma di quel 36% di capitale umano inutilizzato con il 19% dei Neet, che porta ad un totale di oltre un giovane su 3 che passa il tempo senza una formazione e senza accumulare esperienza.

Una tale riconsiderazione dei dati forniti dall’Eurostat fornisce lo spunto per un più coerente parallelo con le altre Nazioni europee: si nota cosi che la Spagna, pur avendo un tasso di disoccupazione giovanile di oltre il 52%, ha un tasso di attività ben più alto, del 39%, ed un tasso di Neet più basso dell’Italia, pari al 18%. Insomma, la situazione è paragonabile pur essendo molto più elevato il tasso di disoccupazione, che infatti mostra ben poco della situazione complessiva.

Scendendo ulteriormente nel dettaglio, bisogna considerare quale sia la forma di impiego di quel 64% del 29% di giovani italiani attivi, quanta parte di essi abbia un contratto a termine, piuttosto che una forma di collaborazione o di stage (spesso e volentieri non remunerata), e quanti invece abbiano accesso ad un lavoro a tempo indeterminato o comunque non atipico.

Secondo recenti dati Isfol, il 63% dei giovani che si trovava in condizioni lavorative precarie nel 2008, a 24 mesi di distanza è ancora nella stessa situazione, il 27% è passato ad un contratto tipico ed il 10% è uscito dal mercato del lavoro, dati che denotano il forte immobilismo di un mercato che dovrebbe essere flessibile e che in realtà è semplicemente precario, con scarse (1 su 4) possibilità di miglioramento della posizione lavorativa.

Con tutto ciò che ne segue: mancanza di investimenti per la creazione di un nucleo familiare, mancanza di stimolo all’acquisto di beni superflui, mancanza di investimento per la creazione di start-up e nuovi modelli di business, mancanza di partecipazione al sistema previdenziale che per mantenersi in piedi deve “spremere” chi, per fortuna o purtroppo, ne è parte.

Lo sguardo è quindi rivolto al disegno di legge Fornero, che dovrebbe ridurre “l’uso improprio e strumentale degli elementi di flessibilità progressivamente introdotti nell’ordinamento”, con la salda consapevolezza che il mancato ricambio generazionale, lo sfruttamento irregolare (ed immorale) dei contratti atipici e l’immobilismo lavorativo siano alla base non solo dell’attuale spreco di giovani risorse umane, ma di un vero e proprio ‘furto del futuro’ della generazione che si affaccia oggi al mondo del lavoro, con effetti depressivi che dureranno molto più a lungo di quanto oggi si possa immaginare.

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