La settimana appena finita ha visto una decisione del Governo di cui non vanno sottovalutati l’importanza e il carattere innovativo. Dopo mesi di aspettative, il Governo ha infine varato un decreto legge che affronta con serietà il problema di ridurre la spesa pubblica, non in modo lineare (e cioè indiscriminato) ma selettivo, cercando di eliminare, o almeno limitare, sprechi e doppioni che, bisogna dirlo, proliferano da decenni nella Pubblica Amministrazione a tutti i livelli, frutto di un andazzo deplorevole ma comune a tutte le parti politiche: tirare a campare, accettare le cattive abitudini, espandere la spesa pubblica, perché opporvisi provoca inevitabilmente resistenze e reazioni di interessi radicati e corporazioni varie che, su una spesa pubblica senza controllo, fondano i loro privilegi parassitari.
Da tempo venivamo chiedendo al Governo di intraprendere questa strada, l’unica veramente utile a riportare in conti pubblici sotto controllo, evitando un ulteriore inasprimento della pressione fiscale che avrebbe carattere terribilmente recessivo. Avremmo voluto anzi misure d un carattere ancora più incisivo e attendiamo per questo con interesse la terza fase preannunciata dal Premier Monti, consapevoli d’altra parte che il Governo non può fare tutto quello che vorrebbe, senza tener conto delle difficoltà cui vanno incontro tutti quelli che, nel nostro Paese, cercano di cambiare le cose, di superare decenni di interessata pigrizia, di colpevole complicità con gli interessi settoriali: difficoltà più gravi per un esecutivo che, certo, non ha da rendere conti elettorali ed è dunque, almeno teoricamente, più libero di altri, ma conta in Parlamento su una maggioranza, ampia sulla carta, ma divisa e disomogenea, le cui componenti sono sovente tentate di mettere i bastoni tra le ruote pur di difendere i propri malintesi interessi elettorali.
Una prova immediata di questo l’ha data il Segretario del PD (pure persona ben al corrente della situazione finanziaria e dei suoi imperativi), venuto puntualmente fuori a criticare i tagli nel settore della Sanità, confondendo una supposta diminuzione dei servizi con quella che è semplicemente la lotta agli indifendibili sprechi che, in quel settore, sono di notorietà pubblica. Rendiamoci conto che il Governo dei tecnici ha limiti seri, non è una dittatura, non governa per decreto e coi pieni poteri, non ha una maggioranza pronta a seguirlo ciecamente, e quindi apprezziamo quello che fa, anche se non è tutto quello che vorremmo e che sarebbe necessario fare. Bene ha fatto dunque il PLI a manifestare subito il suo appoggio alle decisioni annunciate a Palazzo Chigi e bene hanno fatto quei commentatori seri che, in grande maggioranza,, hanno espresso approvazione come, ed è ancora più importante, ha fatto secondo i sondaggi circa il 70% degli italiani, il che dimostrerebbe che non siamo un Paese completamente irrazionale.
Il fatto è che ora, come in altri momenti della vita nazionale, appaiono chiaramente due Italie: da una parte c’è un esecutivo che cerca di fare quello che è necessario, e c’è un Paese responsabile, ragionevole, che riconosce le leggi elementari dell’economia e delle finanze, è consapevole che la faciloneria demagogica del passato ci ha portato a un punto di non ritorno e capisce che quel che serve adesso è una classe politica che non illuda più i cittadini, che non creda di superare le crisi negandole od occultandole, ma sappia parlare chiaramente, dire la verità e chiedere ai cittadini i sacrifici necessari.
E dall’altra parte c’è un’Italia becera, scomposta, folcloristica, pronta a correre appresso al pifferaio di turno, ieri Berlusconi, oggi i Grillo, i Vendola, i Di Pietro: gente a cui, personalmente, non affiderei neppure la proverbiale gestione di un condominio. E ci stanno i maggiori esponenti sindacali, capaci solo di reclamare cose impossibili, tutti tesi alla difesa di rendite di posizione o privilegi corporativi, responsabili non ultimi del ritardo della nostra economia: gente che ignora, o finge di ignorare, perché le fa comodo, le regole essenziali di un’economia di mercato, e non è neppure capace di guardare a quello che accade in Paesi meno demagogici del nostro, come la Germania, Paesi dove le forze sindacali sono una componente essenziale della linea che porta a uno sviluppo solido e costante; gente, infine, che crede o finge di credere che una manifestazione di piazza, per quante migliaia o centinaia di migliaia di persone possa mobilitare, possa risolvere i nostri problemi di struttura: come se i Governi disponessero di una bacchetta magica, lo sviluppo economico fosse solo frutto della buona volontà di un esecutivo (e la stagnazione frutto di una perversa ottusità, magari al servizio di inconfessabili interessi), le proteste urlate servissero ad abbassare il debito pubblico, a far diminuire il prezzo mondiale dell’energia, a ristabilire la fiducia di industriali, banche e consumatori, a far tornare risparmio e investimenti ai livelli necessari per produrre un’effettiva, solida ripresa del’economia. A questo coro, è spiacevole dirlo, si uniscono esponenti della Confindustria, gente che dovrebbe conoscere meglio di chiunque la realtà delle cose, ma non rinuncia alla sua fetta de demagogia padronale e si aspetta in realtà da tutti i Governi misure che perpetuino i privilegi ormai superati, pur sapendo che misure del genere non farebbero che aggravare il deficit economico e finanziario del Paese; e non fa quello che invece dovrebbe fare: rimboccarsi le maniche, dimenticare qualsiasi privilegio protezionistico o fiscale, e produrre di più, produrre ed esportare di più e meglio: perché fuori dei nostri confini, dalla Cina all’India, dagli Stati Uniti alla stessa Europa, c’è un vasto mondo che continua a crescere e a consumare e non c’è ragione per cui i prodotti del nostro talento e della nostra creatività non possano trovarvi mercati sempre più accoglienti.
In mezzo a queste due Italie ci sono esponenti politici, di destra e di sinistra, che oscillano tra la consapevolezza della serietà del momento e della impossibilità di ricette demagogiche, e la tentazione di rincorrere le ali estreme delle rispettive basi elettorali, in un gioco al massacro da cui uscirebbe perdente il Paese e, con lui, le stesse forze politiche che hanno formato e continuano a formare il tessuto connettivo delle nostre istituzioni e che sono giustamente additate come i colpevoli che, se non forniranno nei prossimi mesi prove costanti di autocontrollo e di serietà, saranno meritatamente spazzate via dall’onda di un’antipolitica che sa offrire solo demagogia e ricette già dimostratesi fallimentari.
Vedremo nel prossimo futuro verso quale delle due Italie si inclinerà la bilancia dei maggiori partiti. Non è certo difficile pensare che le misure decise dal Governo Monti susciteranno fiere resistenze locali e corporative: ogni città in cui un piccolo mondo vegeta grazie a un tribunale, a una caserma od a una prefettura: ogni politico che vive parassitariamente grazie ai compensi pagati con denaro di tutti, ogni primario che dovrà rinunciare al suo piccolo feudo ospedaliero, ogni rappresentanza sindacale tesa a difendere rendite di posizioni e privilegi indifendibili (in primo luogo quelli del pubblico impiego), getterà le strida più alte e ci sarà chi gli presterà eco ed appoggio. Se i partiti saranno tentati di cavalcare l’onda delle proteste, se, fingendo un appoggio di facciata, tenteranno di stravolgere le misure decretate dal Governo, se privilegeranno la preoccupazione di future alleanze rispetto alle dure esigenze del presente e del futuro del Paese, dimostreranno di essere ancora, inguaribilmente, schiavi dei vecchi, collaudati vizi della nostra politica. Speriamo, anzi confidiamo, che così non sia, se non altro perché nei vari schieramenti non mancano persone responsabili e, soprattutto, consapevoli che sull’avvenire del Paese e delle sue finanze ognuno si gioca anche molto dell’avvenire proprio: perché sarebbe una ben scarsa soddisfazione guadagnare qualche voto in più e conquistare potere, o ritornarvi, se questo potere dovesse esercitarsi sulle macerie di un’economia irrimediabilmente compromessa. Quindi, speriamo e confidiamo che, al di là delle mormorazioni forse utili a compiacere, o a non deludere troppo, le loro frange estreme, i partiti principali sappiano essere all’altezza del momento e delle esigenze del Paese.
Quanto ai liberali, il loro posto, il loro ruolo, sono chiarissimi, e le posizioni manifestate dagli organi competenti del PLI vanno nella direzione giusta: affermare, contro venti e maree, le ragioni della buona politica e della sana amministrazione, e oltre, direi, le ragioni della verità e della realtà; mettere sempre, sopra tutto e tutti, contro tutto e tutti, gli interessi superiori del Paese e difendere veramente, costruttivamente, l’avvenire dei nostri figli.
© Rivoluzione Liberale
