In questi giorni è stato commemorato il ventesimo anno dalla strage in via D’Amelio. Numerose le manifestazioni di cordoglio nel capoluogo palermitano, eventi in tutta Italia, manifestazioni di cittadini e commemorazioni nei palazzi di giustizia ed in quelli istituzionali. Grande afflato nelle parole di chi lo ha ricordato, commozione nelle voci dei colleghi del magistrato, riconoscenza per il lavoro svolto da un umile servitore dello Stato. L’ennesimo paradosso tutto italiano: Paolo Borsellino, oggi acclamato – da tutti, nessuno escluso – come eroe nazionale nella lotta alla mafia si sentiva ed era solo ed abbandonato dalle Istituzioni.
Spesso, infatti, si dimentica – o si vuole dimenticare – che Borsellino affrontò in solitudine soprattutto l’ultima parte della sua vita. Invano il magistrato invocava nuovi mezzi, chiedeva che, attraverso alcune modifiche legislative, il lavoro di indagine svolto nelle Procure non fosse vanificato una volta che il materiale probatorio giungeva a processo.
Sperò che un evento così violento e drammatico come l’uccisione del collega ed amico Giovanni Falcone potesse scuotere le coscienze di tutti e condurre ad un cambiamento radicale affinché il nostro Paese rafforzasse l’impegno e gli strumenti di lotta: conscio del consenso conquistato dall’apparato antistato, chiedeva efficienza e collaborazione.
Gli eventi ci consentono di dire, oggi, che Borsellino chiedeva troppo. Di fatto, i palazzi romani lo avevano abbandonato e condannato a morte. La “mente” capitolina ed il “braccio” palermitano avevano stretto un’alleanza nefasta, oggi di strettissima attualità. Lui stesso ne divenne consapevole, allorquando capì che il nemico aveva cambiato volto, che il mafioso rappresentato con “baffi lunghi, coppola e lupara” era ormai soltanto un luogo comune, che la lotta andava combattuta anche e soprattutto fuori dal territorio siciliano, che gli intrecci tra mafia e politica erano stretti e, ormai, consolidati a tutti i livelli.
In particolare, il compromesso cui si piegarono molti uomini politici gli si palesò talmente evidente che ben presto avvertì sulla necessità di adottare una nuova prospettiva per combattere il fenomeno associativo. Egli, infatti, convinto che il lavoro e la dedizione della Magistratura non fossero più da soli sufficienti ad estirpare la “mala pianta”, lasciò il suo testamento morale affermando vivamente la necessità di avviare un movimento culturale che partisse dalla cittadinanza per diffondersi “a macchia di leopardo”, fino a giungere alle più alte sfere politiche.
Paolo Borsellino, sfiduciato dai potenti, ritenne che solo la dirompenza e la forza di un autentico ed diffuso fermento di rinnovamento condotto dal basso potessero determinare una frattura tra le Istituzioni ed il compromesso morale, l’indifferenza, la contiguità e, quindi, la complicità con l’apparato antistato. Proprio tale convinzione fece dire al magistrato che “il cambiamento si fa dentro la cabina elettorale con la matita in mano più forte di qualsiasi arma, più pericolosa di una lupara, più affilata di un coltello”.
Questo oggi il monito che – tra i tanti del magistrato – dovrebbe essere tenuto sempre presente da tutta la società civile e dagli uomini politici che vogliano promuovere e condurre una stagione di autentica rottura con il passato. È un invito a scelte libere e consapevoli, a metodi trasparenti, alla vera dialettica democratica, al ritorno al significato alto e nobile della politica, a sentire “la bellezza del fresco profumo della libertà” come diceva lo stesso magistrato palermitano trucidato dalla mafia in un agguato mortale il 19 luglio 1992 insieme a cinque agenti della sua scorta: quattro uomini ed una donna.
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