I principi fondamentali di un Stato democratico e liberale sono custoditi dalla Carta costituzionale che, storicamente, è sempre stato il frutto di un attento bilanciamento dei poteri, costruito sul rispetto di principi ritenuti inviolabili. “Le costituzioni – afferma Hayek – sono basate, o presumono di esserlo, su un accordo di fondo sui principi più fondamentali: principi forse, in nessun caso già esplicitamente espressi, ma che precedono e rendono possibile il consenso e le leggi scritte fondamentali […] un gruppo di uomini può formare una società capace di formulare leggi perché già condivide convinzioni comuni sul cui fondamento sono possibili discussione e persuasione e devono conformarsi le norme scritte per poter essere accettate come legittime”. Del resto, continua Hayek, “come qualsiasi altra attività umana anche la legislazione non può fare a meno della guida dei principi, se vuol tenere conto degli effetti nel loro complesso”. Nel contempo “non si può credere che, perché sappiamo statuire deliberatamente delle leggi, tutte le norme giuridiche possano essere deliberate per legge da qualche soggetto”.

Di fronte al modo in cui vengono portate avanti le riforme nel nostro Paese – ad esempio la riforma del semipresidenzialismo che dopo aver superato “a maggioranza” (e con una serie di votazioni lampo nel giro di mezz’ora) l’esame del Senato attende ora di essere accolta dal dibattito parlamentare – occorre interrogarsi sulla reale consistenza del dibattito politico che, anche a proposito di questioni fondamentali come le riforme costituzionali, continua ad agire con superficialità e a comparti stagni, sfruttando gli assist del momento – come se si trattasse di una partita di calcio – escludendo, a priori, la possibilità di raggiungere reali e adeguati livelli di coesione.

La riforma sul semipresidenzialismo è passata grazie all’assist della Lega al Pdl (e con i voti di Coesione nazionale) ma ha suscitato ampie polemiche tra gli stessi pidiellini. “Una riforma così impegnativa – ha affermato l’ex ministro dell’Interno Pisanu – avrebbe richiesto un ampio dibattito. E invece ci siamo trovati con una manciata di emendamenti presentati in Aula contro l’opinione della larga maggioranza che si era raccolta attorno all’originario pacchetto di riforme”. Il semipresidenzialismo lascia invece indifferenti i centristi, Casini lo definisce “un tema che non esiste”, e irrita il Pd dove Bersani lo ritiene “un diversivo senza costrutto” aggiungendo: “Con un colpo di mano da parte del Pdl, se cioè si ripetesse sulla legge elettorale quel che si è visto in Senato per la riforma costituzionale, la rottura sarebbe irrimediabile”. Il Pdl rivendica una maggioranza basata sull’asse con la Lega mentre il governo è sostenuto dall’ABC, Pdl, Pd e Terzo polo. Una “doppia maggioranza”, quindi, che risulta difficile da sostenere politicamente. Il leader dell’Udc rassicura nel frattempo il Pd e afferma: “Sulla legge elettorale non ci interessano maggioranze di parte, ci interessa la massima condivisione”. Ma aggiunge: “Per la fretta con cui dobbiamo lavorare, non immagino una legge elettorale che duri vent’anni. Basta migliorare l’attuale restituendo ai cittadini la scelta degli eletti”.

La fretta, e quindi la mancata razionalizzazione delle riforme, acuisce la mancanza di condivisione e incoraggia la fastidiosa provocazione di votare “a maggioranza” – “come sempre avviene in democrazia”, sostiene il Cavaliere – alimentando, in questo modo, un’irresponsabile superficialità che prevale anche quando in campo ci sono le riforme cardine, quelle sulle quali si erge uno Stato democratico e liberale.

In questo contesto i danni arrecati allo Stato democratico e liberale – faticosamente costruito e orgogliosamente fondato sul rispetto delle istituzioni, garanzia di stabilità e di libertà – sono il frutto di un dibattito politico insufficiente e di un controproducente clima illiberale. Al di là delle conversioni ‘verbali’, molto in voga nel nostro tempo, il liberalismo resta infatti un modo di essere e di agire ancorato al valore delle istituzioni (più che uno slogan da usare in campagna elettorale e con cui riempire i manifesti), che combatte le forme degenerative dello statalismo per affermare la superiorità del ‘governo delle leggi’. “Una società libera – afferma Hayek – ha bisogno di mezzi permanenti per limitare i poteri di governo, qualunque sia il particolare obiettivo del momento”. Il particolare obiettivo del momento sembra essere il potere di scelta dei cittadini, sia con il rafforzamento della democrazia diretta a proposito di semipresidenzialismo sia con il ritorno alle preferenze dell’ipotetica riforma elettorale, la quale rappresenta però un riarso terreno di sfida, animato da includenti diatribe, che ormai perdurano da giorni, minacciando,  settimana dopo settimana, la credibilità del sistema Paese.

Il rischio maggiore è l’ascesa inarrestabile di un pericoloso populismo demagogico che tra il semipresidenzialismo e la nuova (sospirata e contorta) legge elettorale potrebbe far degenerare, in maniera irreversibile, le istituzioni fondamentali di una sana democrazia liberale. Molto spesso il potere del popolo viene assimilato al potere ‘democratico’ della maggioranza in maniera erronea e, presentato come spazio di vera libertà, diventa un vero e proprio specchietto per le allodole. La libertà vera difficilmente è il frutto di decisioni prese dalla maggioranza (per di più transitoria) ma è il risultato di una processo dialettico che, attraverso un dialogo costruttivo tra parti diverse e anche opposte, riesce a dare forma al progresso civile, sociale e politico di una comunità (nazionale o internazionale).

Per l’Italia delle riforme d’agosto, invece, non c’è dialettica, non si avverte l’effetto positivo dei ‘punti critici’ che einaudiamente sono leve di crescita, luoghi di superamento dell’esistente, modalità di creazione di un futuro diverso. Tutto sembra giocarsi all’interno di labili alleanze che dialogano sui giornali più che in Parlamento e subiscono l’assillo di una civiltà mediatica in cui il mezzo prevale sul contenuto. Paradossalmente tutti dicono di impegnarsi per sbloccare la situazione ma più si aggiungono argomenti alla trattativa e meno si fanno passi in avanti.

È labile anche lo ‘spirito delle leggi’; di conseguenza, lo Stato liberale è debole e la separazione dei poteri aleatoria o strumentalizzata. Tutto ciò è chiaro a proposito del rafforzamento dell’esecutivo e di un possibile depotenziamento critico del legislativo a causa dell’abolizione del bicameralismo perfetto, per cui sembra si disconosca l’esistenza storica della seconda Camera che – come afferma Lord Acton in “The History of Freedom” – è “garanzia essenziale di libertà in qualsiasi vera democrazia”.

Le questioni aperte sono molte e per ora ancora irrisolte. Alla base delle possibili soluzioni di certo dovrebbe esserci la volontà di fare del proprio meglio per il rinnovamento del Paese, ispirandosi ad un sano senso di responsabilità politica e civile più che andare avanti creando nuovi spot per la prossima campagna elettorale. Tutte le forze politiche sono però afflitte da una patologica contraddittorietà, sempre pronte a rivendicare il proprio status quo e limitate da un pressante bipolarismo che non si sa se definire recidivo o postumo.

Ciò che manca alle forze politiche della nostra Italia illiberale forse è proprio la volontà reale di rinnovarsi aprendosi ad una realtà completamente nuova, piuttosto che ostinarsi a rifugiarsi in vecchie alleanze ripetendo schemi ormai consumati. In pratica una rivoluzione liberale dimostrata con i fatti.

Le riforme approvate a maggioranza (principio democratico ma illiberale) sembrano cancellare (o almeno oscurare) gli innumerevoli sacrifici di molti decenni, arduamente trascorsi combattendo per la libertà e quindi per costruire – attraverso l’attuazione largamente deliberata di varie riforme – l’Italia democratica liberale e repubblicana.

“La libertà – afferma Lord Acton – è non un dono ma una conquista; è uno stato non di riposo ma uno sforzo di crescita […] non un dato ma uno scopo”. In pratica la libertà è “il prodotto lento e il risultato più alto della civiltà”, una civiltà avanzata in virtù della quale una società si afferma come civile e responsabile.

In quest’ottica la sede ideale della libertà è la coscienza e si afferma il primato dell’etica sulla politica. “La coscienza – afferma Acton – mi suggerisce l’immagine di una fortezza inespugnabile, al cui interno un uomo realizza la formazione del carattere e sviluppa il potere di resistere all’influenza dell’esempio e alla legge delle masse”. Quindi “più la coscienza viene in primo piano, più consideriamo non quello che lo Stato realizza, ma quello che permette che sia realizzato”. Per Acton “lo Stato ideale è quello in cui la libertà è sufficientemente tutelata sia contro il governo sia contro il popolo” e “le istituzioni sono non un fine, ma un mezzo”. In questo contesto “la libertà consiste nella divisione dei poteri, mentre l’assolutismo equivale alla concentrazione dei poteri”. “Il potere tende a corrompere e il potere assoluto corrompe in modo assoluto”, ammonisce Lord Acton.

Il vero liberale è infine colui che considera “la libertà come un fine e non come un mezzo”, che rivendica le stesse cose per sé e per gli altri, che non ama le eccezioni e i privilegi. Il vero liberale è colui che non si riconosce nel carattere silente della maggioranza e cerca di favorire – in tutti i modi e nei limiti del possibile – il dispiegamento costruttivo del dissenso liberale teso al contemperamento delle diverse anime di una civiltà avanzata e in continuo divenire.

A questo punto l’obiettivo principale dovrebbe essere la costruzione di una civiltà avanzata anche all’interno della politica di casa nostra e l’ultima chance sembra essere proprio la riforma elettorale, quella che secondo il premier in carica rassicurerebbe i mercati. Del resto elezioni senza riforma, rappresenterebbero la sublimazione di un ulteriore fallimento, l’epilogo di un torneo di calcio estivo giocato alle spalle dell’Italia e della sua credibilità.

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