Troppo giovani per essere considerati alla stregua di pensionati o aspiranti tali, esodati e quant’altro. Troppo vecchi per essere considerati giovani alla ricerca di prima occupazione. Ecco i grandi dimenticati: i trentenni. Nessuno ne parla, nessuno se ne cura, eppure si tratta di intere generazioni allo sbando.
Sono anche io una trentenne e quando – come tanti miei coetanei – ero un’adolescente, poi una brillante studentessa, poi una giovane laureata, poi una promettente professionista, coloro che si sono occupati della mia formazione mi dicevano che avrei avuto un brillante futuro “da grande”, che le strade, dopo i dovuti sacrifici e con le competenze acquisite, si sarebbero schiuse davanti a me.
Eccoci diventati grandi, noi trentenni. Adesso doveva essere il nostro momento. E, invece, è il momento della crisi. È il momento di somministrare la cura all’Italia malata.
Le priorità sono assicurare la cassa integrazione ai lavoratori di aziende in rischio di fallimento, la pensione a chi avuto la fortuna di lavorare e maturare il periodo di contribuzione, una ricollocazione agli esodati, l’aumento delle annualità di servizio, l’inserimento dei neo-diplomati e neo-laureati nel mondo del lavoro.
E per noi? Noi che siamo già laureati, anzi già specializzati, abilitati, “masterizzati”? Noi che eravamo bambini negli Anni ’80, cresciuti nel finto benessere e costretti ad una impietosa involuzione? Quale è la ricetta che offre il governo?
Senza nessun vittimismo, ma con obiettiva lucidità siamo in balia del nulla e spesso senza prospettive o, peggio ancora, senza speranze. Utilizzando una metafora olimpica, dopo che abbiamo fatto tutto ciò che era nostro dovere fare, nella “staffetta della vita”, le generazioni che ci hanno preceduti non passano il testimone. Eppure eravamo pronti a riceverlo, a reggerlo con dignità, se non con successo, e passarlo orgogliosamente alle generazioni future. Senza testimone, dunque, sembriamo destinati a non poter raggiungere il traguardo.
Al danno si aggiunge la beffa: qualcuno ci chiama “bamboccioni”, generalizzando e, quindi, commettendo – per definizione – un errore elementare. Sfido chiunque a trovare un trentenne, in media discretamente scolarizzato e conoscitore anche della realtà esterna alla propria, che, pur amando la famiglia e riconoscendo in essa un valore importante, non abbia la voglia e la curiosità di intraprendere un percorso di vita autonomo.
Né si può accogliere con favore il monito con il quale, con tono quasi di sfida, si invitano i giovani, anche se laureati, a svolgere anche i lavori più umili per garantirsi le spese di un affitto e rinunciare alle comodità del nido materno.
Se questo poteva avere qualche valenza cinquanta o quaranta anni fa, oggi tale suggerimento è del tutto anacronistico e, ancora più, ipocrita. Se, infatti, nel passato svolgere lavori umili poteva essere una dignitosa parentesi in attesa di riscatto, ai giorni d’oggi tale percorso determinerebbe una ghettizzazione sociale e professionale dalle quale sarebbe impossibile uscire.
Di fatto, lo scenario che si leva ai nostri occhi è caratterizzato dall’assenza di politiche del lavoro ad hoc, dalla cronicità del lavoro precario e sottopagato, dall’impossibilità di accedere al credito per assenza di garanzie e di beneficiare di qualsivoglia prestazione di welfare.
Senza dubbio, però, questa non è la deposizione delle armi. Non bisogna considerare le difficoltà come una sconfitta, ma come una sfida e uno stimolo per il futuro. Di certo, i trentenni di oggi vorrebbero essere meno soli.
L’auspicio è che qualcuno si levi a nostra difesa, non per farne un’etichetta o per raccogliere consensi, ma perché riconosce in maniera consapevole il nostro valore e il merito guadagnato sul campo, perché considera che siamo tra le ultime generazioni che ha imparato a scrivere senza pc, che ha giocato con le bambole, che ha ascoltato i racconti dei nonni, recependone gli antichi valori.
Altrimenti, continueremo da soli, noi destinati, comunque, a raggiungere il traguardo.
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