Per la dottrina liberale la competizione è la conseguenza logica della libertà individuale. “Così come per la sfera intellettuale – afferma Hayek – anche in quella materiale la concorrenza è il mezzo più efficace per scoprire il modo migliore di raggiungere i fini umani”. La scienza progredisce attraverso il confronto costruttivo e la competizione tra idee; una democrazia liberale sana prospera se esiste una competizione fruttuosa tra diverse proposte politiche; la libera economia è competizione di merci e di servizi sul mercato. Per l’homo liberalis, ogni limitazione della competizione equivale a una violazione della libertà e dei diritti dell’individuo. Non vi sono eccezioni a questa regola, anche quando la limitazione della competizione sembra venga avanzata nel nome di un ipotetico interesse generale che nella realtà dei fatti corrisponde, molto spesso, all’interesse di ceti o gruppi particolari.
“Alcuni critici del libero mercato – afferma a sua volta Murray N. Rothbard (1926-1995) – sostengono che i diritti di proprietà sono in conflitto con i diritti ‘umani’. Ma questi critici non si rendono conto che in un sistema di libero mercato ogni persona ha un diritto di proprietà sulla sua persona e sul suo lavoro, e che può liberamente stipulare contratti per quei servizi. La schiavitù viola il basilare diritto di proprietà dello schiavo sul suo corpo e sulla sua persona, un diritto che è il fondamento per i diritti di proprietà di chiunque sugli oggetti materiali, non umani. Per di più, tutti i diritti sono diritti umani, se è diritto di chiunque parlare liberamente dei propri diritti di proprietà in casa propria. Un’accusa comunemente rivolta alla società di libero mercato è che istituisce ‘la legge della giungla’, del ‘cane-mangia-cane’, che rigetta la cooperazione umana a favore della concorrenza e che esalta il successo materiale in contrasto con i valori, la filosofia o le attività di svago. Al contrario, la giungla è precisamente una società di coercizione, furto e parassitismo, una società che demolisce le vite e i livelli di vita. La pacifica concorrenza di mercato dei produttori e dei fornitori è un processo profondamente cooperativo in cui ciascuno si avvantaggia e dove il tenore di vita di ognuno fiorisce (se paragonato a che cosa sarebbe in una società di non-liberi). E l’indubbio successo materiale delle società libere fornisce il benessere generalizzato che ci permette di godere una quantità enorme di svago rispetto ad altre società e di occuparci delle questioni spirituali. È nei Paesi coercitivi con poca o nessuna attività di mercato, soprattutto sotto il comunismo, che la frantumazione dell’esistenza quotidiana non soltanto impoverisce materialmente le persone, ma infiacchisce il loro spirito”.
Il mercato corrisponde alla somma (o al sistema) delle transazioni che gli individui effettuano volontariamente nel rispetto della libertà degli altri. Paradossalmente, il mercato materialmente non esiste. Ad esistere sono le azioni individuali di produzione e di scambio, guidate dalle conoscenze e dai fini che ognuno possiede. La complessità e la mancanza di nitidezza che caratterizzano il sistema economico attuale (dominato dalla finanza globale) non devono far perdere di vista la fondamentale verità ‘cooperativa’ che sta alla base di un sistema di libero mercato. L’economia di mercato, afferma Ludwig von Mises (1881-1973), è “l’unico sistema fattibile di cooperazione sociale”; laissez-faire, in fondo, significa lasciare che i singoli individui scelgano in che modo vogliono ‘cooperare’ all’interno della divisione sociale del lavoro e che sia il consumatore a determinare che cosa gli imprenditori dovranno produrre.
Competizione non vuol dire assenza di cooperazione. Competizione e cooperazione sono le due anime paritarie di un sistema di libera concorrenza e il mercato non è qualcosa di diverso rispetto alla materia, gli individui e le loro azioni, da cui è composto. Il mercato non ha dei fini de delle logiche proprie, separate e superiori rispetto a quelle degli individui. Il mercato è un’istituzione umana, come sostiene von Mises, e la logica del mercato è semplicemente la logica delle scelte di individui che sono in relazione gli uni con gli altri. Come si legge in Human Action, “agendo, ognuno serve i propri concittadini. Ognuno è in se stesso mezzo e fine; fine ultimo per se stesso e mezzo per gli altri nei loro tentativi di raggiungere i propri fini”. In questa prospettiva il libero mercato, nella misura in cui libero lo è realmente, indirizza le attività individuali verso la massima soddisfazione dei bisogni (individuali e collettivi nello stesso tempo). Il mercato è un’istituzione sia cooperativa che competitiva, nelle cui dinamiche l’individuo si integra in virtù del proprio merito, del suo talento, delle sue capacità, delle sue inclinazioni. Tale sistema deve però fondarsi su dei principi etici rispettosi della natura e della dignità umana evitando, in questo modo, gli effetti disastrosi di una competizione selvaggia e distruttiva. La stessa etimologia del termine ‘competizione’ nasconde la sua anima ‘cooperativa’: esso deriva dal latino cum-petere che vuol dire ‘cercare insieme’ (anche se in modo agonistico) la soluzione migliore. In un libero mercato sano le azioni individuali sono infatti armonizzate da una costruttiva cooperazione competitiva.
Ciò che è auspicabile è l’affermarsi di un “Umanesimo liberale”, come teorizzato da Wilhelm Röpke (1899-1966), un ordine socio-economico basato sul libero mercato, in cui i diritti umani rappresentano i diritti fondamentali e l’individualismo viene bilanciato da principi di collettività e solidarietà. In pratica, il rispetto dell’essere umano e il senso civico dovrebbero manifestarsi costantemente attraverso l’economia, la politica e l’etica pubblica.
La libertà dell’iniziativa economica che già John Locke intendeva difendere inserendo il ‘diritto di proprietà’ fra i diritti naturali e inalienabili, nel contesto economico attuale, dominato dalla crisi, assume una valenza quasi rivoluzionaria. Per la dottrina liberale, in effetti, la libertà economica è la premessa indispensabile per ogni altra forma di libertà: l’individuo è libero solo se è proprietario e la libertà politica è possibile soltanto in presenza della libertà economica. La libertà in economia non è uno dei tanti aspetti con i quali si è presentata nella storia la lotta per la libertà ma è la fonte di ogni libertà anche se – come affermano Croce e Popper – non è possibile legare (o determinare meccanicamente) tutte le libertà, etiche, politiche, culturali alla pura libertà economica.
Di fronte ad un capitalismo sfrenato la dottrina liberale risponde con un liberismo delle regole, perché libertà economica non vuol dire anarchia o potere assoluto del capitale. In questo contesto la distinzione, propriamente liberale, tra libero mercato e mero capitalismo è una distinzione che nel mondo contemporaneo si rivela doverosa. La concorrenza, afferma Röpke è “l’unico principio regolatore che abbiamo a disposizione per una società differenziata e profondamente tecnicizzata, ma affinché esso possa realmente garantire il regolamento del processo economico deve essere puro, non corrotto da monopoli. Solo allora sarà un ‘principio di rendimento’ e quindi un principio che solo può soddisfare il nostro senso di giustizia”. I monopoli di ogni genere, siano essi sociali o più specificatamente economici, statalisti o privatistici, materiali o immateriali, non rientrano nella mentalità liberale. Il liberalismo autentico possiede una natura non oligarchica.
La libertà economica esige, a sua volta, un’intelligenza morale che sia in grado di valorizzare al meglio la natura cooperativa e competitiva del libero mercato, favorendo così un accrescimento sano del capitale, fonte di pubblico benessere. Come proclama la “terza via” di Röpke, l’economia di mercato dovrebbe dimostrare una sensibilità sociale in virtù della quale emergano sia il principio di solidarietà, dato che ogni individuo si inserisce in una società interdipendente, sia il principio di sussidiarietà come regola-istituzione che mette in relazione individualità e solidarietà.
Il capitale, nello specifico, deve essere costantemente alimentato con il lavoro per sopravvivere a se stesso. L’impresa vive solo di lavoro. Come afferma von Mises: “L’imprenditore non è in grado di provvedere per i propri nipoti o pronipoti. Infatti è tipico della proprietà privata dei mezzi di produzione nel sistema capitalistico di non creare alcuna fonte permanente di reddito. Ogni fortuna deve venir guadagnata di nuovo. Quando il signore feudale sosteneva il sistema feudale non difendeva solo la sua proprietà, ma anche quella dei suoi discendenti. L’imprenditore nel sistema capitalistico invece sa che i suoi figli e i suoi nipoti sopravviveranno di fronte ai nuovi competitori soltanto se avranno successo come direttori di imprese produttive”.
La crisi attuale sta allevando nuovi giganti: il timore della miseria, l’incertezza del futuro, la decomposizione dell’umanità e della società, lo sgretolamento della libertà individuale, la corrosione del capitale e dei patrimoni, la crisi occupazionale e l’agonia della libera impresa. I maggiori pericoli provengono dall’inflazione, dalla tassazione paralizzante, da una burocrazia del servizio sociale con poteri arbitrari e sempre più ampi; pericoli ai quali l’individuo non può sfuggire se non con il sostegno di una sana società liberale che sia in grado di mitigare il giogo di quella macchina sovrabbondante che è lo “Stato”. L’alternativa non è tra un rigido automatismo ed una cosciente pianificazione ma piuttosto tra “l’azione autonoma di ogni individuo contro l’azione esclusiva del governo, tra la libertà individuale e l’onnipotenza del governo”, ammonisce von Mises. Nel contempo le liberalizzazioni che avanzano in settori chiave della società dell’individuo – in primo luogo la sanità e la cultura – esigono un particolare rispetto di valori fondanti quali l’uguaglianza e la libertà, per evitare sperequazioni inopportune a proposito di cura, sviluppo e formazione dell’essere umano.
Infine gli ingenti sacrifici richiesti ai cittadini attraverso la tassazione impongono pesanti battute d’arresto: il mercato del lavoro e la creazione di capitale sono paralizzati e le ripercussioni sul sistema dei consumi e sulla qualità della vita si rivelano a dir poco preoccupanti. “La redistribuzione attraverso l’imposizione tributaria progressiva – afferma Hayek – ormai è quasi universalmente accettata da tutti come una cosa giusta. Eppure sarebbe insincero evitare di discuterne. […] Anche se liberarsi di quello che in materia è ormai un credo dogmatico richiede un notevole sforzo, una volta posto il problema con chiarezza dovrebbe apparire evidente che proprio qui, più che altrove, la politica è diventata arbitrio”.
Un sistema di libero mercato non è un sistema senza regole ma, di certo, in esso gli individui devono poter essere liberi di fare delle risorse delle quali dispongono l’uso che ritengono più opportuno, con il solo vincolo di non ledere i diritti altrui.
Per la dottrina liberale ‘libertà’ significa, in primo luogo, libertà dalla coercizione esercitata sull’individuo da parte dello Stato o di altri organismi pubblici o privati. È la libertà di cooperare con gli altri individui senza che i termini della cooperazione possano essere dettati autoritativamente da terzi. Tale concetto di libertà assume il nome di “libertà liberale”, come in Raymond Aron, o di “libertà negativa”, come in Isaiah Berlin e Friedrich von Hayek; un concetto molto spesso equivocato dai ‘non liberali’, come se i sostenitori della “libertà liberale” non fossero a favore del fatto che tutti gli individui possano godere di un elevato standard di vita, o comunque di uno standard di vita tale da permettere loro di condurre una vita libera dal bisogno materiale. Come afferma Hayek “assicurare un reddito minimo a tutti, o un livello sotto cui nessuno scenda quando non può provvedere a se stesso non soltanto è una protezione assolutamente legittima contro rischi comuni a tutti, ma è un compito necessario della Grande Società”, ossia la moderna ‘società complessa’ che, sfuggendo ad ogni pianificazione centralizzata, si affida all’iniziativa individuale e al meccanismo della libera concorrenza per garantire al maggior numero di individui un’opportuna condizione di benessere materiale e morale.
Nessuna produzione di ricchezza, e quindi anche nessun miglioramento delle condizioni di vita della grande maggioranza degli individui, compresi i più poveri, può mai esistere se la libertà negativa (libertà da) non viene rispettata e tutelata. La libertà è sempre assenza di interferenza e di coercizione; nel momento in cui l’uomo è costretto a seguire dei fini imposti dall’esterno, dagli altri uomini, dallo Stato, e non dal proprio libero esercizio intellettuale, egli viene relegato in uno stato di schiavitù.
La libertà non si dispiega in un’astratta sfera universale ma nelle dimensioni reali, sociali ed economiche, della vita civile. Tali dimensioni esigono, a loro volta, cooperazione e competizione per poter funzionare al meglio evitando, nel contempo, insane contaminazioni provenienti da demistificanti ‘ideologie’ liberiste che, paradossalmente, finirebbero per soffocare la libertà dell’individuo e quindi le sue sane aspirazioni di competizione e di realizzazione.
Scegliendo la soluzione liberista – e quindi la competizione – non si intende assoggettare all’economicismo il mondo culturale e spirituale ma tale scelta si dimostra più utile di altre per far sì che la libertà si dispieghi, sviluppando tutte le sue potenzialità. “L’idea della libertà – afferma Einaudi – vive, sì, indipendentemente da quella norma pratica contingente che si chiamò libertà economica, ma non si attua se non quando gli uomini, per la stessa ragione per cui vollero essere moralmente liberi, siano riusciti a creare tipi di organizzazione economica adatti a quella vita libera”. L’inscindibile rapporto di mutua implicazione tra liberalismo etico-politico e liberalismo economico (o liberismo) rappresenta il fulcro di un sistema economico e sociale competitivo e, nello stesso tempo, cooperativo, in cui la libertà economica non deturpa e non offende i valori e i sentimenti morali ma, al contrario, rivela esigenze e condizioni senza le quali la libertà non può mettere radici nella storia.
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