“E’ improrogabile la necessità di tornare a fare infrastrutture, di un padiglione che non dovrà essere vetrina per megaprogetti o capolavori, ma piuttosto vorrà far vedere tutto quello che c’è da recuperare sul territorio. In qualche modo dovrà servire anche a far trovare nuovo lavoro ai giovani architetti”. Anche con queste parole Luca Zevi ha voluto presentare il Padiglione Italia, del quale è curatore, alla XIII Biennale di Architettura di Venezia. Tracciando idealmente il perimetro dello spazio fisico e mentale nel quale intende disegnare l’architettura italiana. Forse, spingendosi anche oltre. Sperando che l’idea, la proposta di Venezia, indichi anche i temi sui quali sviluppare le politiche urbanistiche dei prossimi anni. Giocando sul continuo confronto tra il passato e il presente. La lezione di Adriano Olivetti, il profeta di una grande tradizione che è stata capace di mettere insieme politica industriale, politiche sociali e promozione culturale nel segno dello sviluppo. Ma anche internet. Green economy e riciclo. Da una parte un bosco di 5mila felci. Dall’altra, il Belpaese riciclato da Michelangelo Pistoletto.
Per Zevi, tra l’altro progettista del Museo Nazionale della Shoah, a dover essere ripensata è la Città, le politiche della pianificazione e degli interventi. E’ la fine del tempio barocco dell’architettura, quello che doveva necessariamente fare spettacolo, quello di Gery e di Zaha Hadid. Uno show dai costi ormai improponibili, consideratala Grande Crisi. Comedimostrano inequivocabilmente i ripensamenti che hanno riguardato il nuovo Guggenheim a Helsinki, ed in precedenza quelli di Rio de Janeiro, Salisburgo o Vilnius.
Anche per questo in una delle tre sezioni del Padiglione Italia si è scelto di proporre non i risultati di un concorso per un nuovo max-grattacielo, ma il recupero di un tratto di autostrada all’insegna della eco-sostenibilità. Qualcosa di simile a quello che è già successo conla West Side Linedi Manhattan, un tratto di metropolitana abbandonato trasformato in un Parco sopraelevato, o al Red Line Project firmato da Hu Li, destinato a valorizzare gli spazi pubblici dell’immensa periferia di Pechino.
L’architettura italiana è fatta oggi di professionisti eccellenti, senza tanti edifici-mostre. Le nuove generazioni di architetti sembrano più interessate ad opere civili. Costruiscono scuole, ponti, case popolari. Sono più attenti che nel recente passato ai problemi reali delle persone, ai tempi della giustizia, dell’educazione e della parità. Professionisti, attenti soprattutto all’etica e al sociale.
Schiere di architetti interpreti delle difficoltà, non solo economiche, della acquisita consapevolezza che lo spazio che si occupa, è assai prezioso. Proprio per questo da utilizzare con la parsimonia necessaria.
Per questo gli amministratori devono avere il coraggio di puntare sul riutilizzo, sulla rigenerazione, sul riciclo del patrimonio immobiliare dismesso e, a volte, da lunghissimo tempo inutilizzato. Esistente ovunque in Italia. Nel cuore dei grandi centri come nelle periferie. Nei paesi come nelle città medio-piccole. Edifici in numero e con caratteri, spesso, assai differenti. Ma è su questa summa di palazzi storici e di capannoni industriali, di spazi di estensione e “pregio” diseguale, che si giocherà la partita italiana nei prossimi anni. Come ripete anche Josep Acebillo, in passato anche Direttore dell’Istituto per lo sviluppo urbano di Barcellona, in architettura non è più tempo per i bei cavalli superbi ma che si stancano facilmente. Questo è il tempo dei cammelli, forse un poco sgraziati, ma capaci di attraversare il deserto. Un paragone tanto più valido da noi, che del territorio come delle Città abbiamo fatto, non di rado, scempio. Continuando a saturare gli spazi liberi. Ostinatamente aggiungendo nuove cubature, piuttosto che curarci di verificare se quelle esistenti fossero sufficienti ed assicurarne il buon funzionamento. E alla realizzazione di questo miope progetto italiano tanti progettisti si sono prestati. Supportati da sindaci e assessori all’urbanistica senza scrupoli.
Occorrono gesti architettonici moderati e responsabili. Però l’architettura è figlia anche del padre committente. Insomma l’etica del progetto, della sua sostenibilità ambientale, economica e sociale, dipende soprattutto dal committente e fa capo alla sua educazione e cultura. Il focus deve incentrarci sul patto tra la salvaguardia ambientale e quella sociale. Ed è su questo che deve conformarsi la cultura architettonica e la responsabilità dei committenti. Il sindaco dovrà spendersi per la realizzazione di una biblioteca multifunzioni capace di divenire il luogo di socializzazione del quartiere. Piuttosto che il paladino del piccolo o grande centro commerciale senza identità. Così la grande immobiliare dovrà trovare maggiore interesse economico nel rigenerare un patrimonio immobiliare degradato piuttosto che occupare ancora spazio, costruendo nuovi edifici che rimarranno, probabilmente, invenduti. Il cittadino comune nel rifarsi casa dovrà essere consapevole che ricorrere a materiali che possano maggiormente assicurarlo dai terremoti oppure consentire un risparmio energetico, significa avere a cuore la salute sua e dei propri figli.
Agli architetti tocca la sfida di disegnare edifici belli ma a basso costo. Che rispondano alle esigenze di un rapporto sempre più difficile tra Architettura e Natura, servendosi al meglio dell’innovazione tecnologica.
Non c’è bisogno di ritornare ai precetti di Vitruvio, per rendersi conto che Città e Territori hanno davvero un gran bisogno che l’architettura ritorni ad essere civile. Non solo nelle forme.
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