[Pubblichiamo il seguito della Relazione tenuta da Lorenzo Pecchi nella giornata seminariale del recente Consiglio Nazionale del PLI che si è svolto nello scorso finesettimana a Cesenatico. N.d.R.]
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«I problemi che hanno caratterizzato l’area valutaria cino-americana che ha visto la creazione di un forte sbilanciamento nei flussi finanziari possono essere ricondotti in ultima analisi all’esistenza di un tasso di cambio fissato ad un livello sbagliato. La correzione richiede, se non si modifica il cambio, che la zona sopravvalutata in termini di costi, gli Stati Uniti, venga deflazionata o la parte sottovalutata, la Cina, venga inflazionata oppure un po’ dell’uno e un po’ dell’altro. I problemi che si sono cumulati negli anni nell’area valutaria dell’euro sono in realtà molto simili a quelli che hanno caratterizzato l’area cino-americana. Si sono venute a creare nella zona euro due distinte aree geografiche, quella della Germania e dei paesi del Nord, che è sottovalutata in termini di costi e l’area che comprende Italia, Spagna, Portogallo e Grecia (il cosiddetto Club Med) che al contrario è sopravalutata. I paesi dell’area del Nord hanno registrato surplus di conto delle partite correnti, speculare ai deficit che invece hanno registrato i paesi del Club Med. Esattamente come la Cina, la Germania dovrebbe aggiustarsi ad un modello di crescita che prevede maggiori consumi interni e minore esportazioni nette che non è altro che il normale aggiustamento di una economia che vede aumentare il suo tasso di cambio reale o le sue ragioni di scambio. Alla vigilia della creazione dell’Euro la Germania era in una stato di sopravvalutazione dei costi rispetto agli altri paesi europei dovuto in parte anche agli effetti della riunificazione con la Germania dell’Est. L’idea di entrare in un’unione monetaria con i paesi Mediterranei che avevano inflazioni strutturali più elevate dovette apparire ai tedeschi come una grossa opportunità per far diventare la Germania molto più competitiva. E i fatti hanno dato ragione a chi la pensava così.
Contrariamente a quanto si pensi la crisi finanziaria americana del 2007, che per le interconnessioni finanziarie ha colpito anche le banche europee, non è stata la causa della crisi europea ma ha solo esacerbato dinamiche che si sono sviluppate in Europa indipendentemente da ciò che accadeva oltre oceano.
Per capire che cosa è accaduto negli ultimi 11 anni nell’area dell’Euro bisogna tener conto principalmente di tre fattori: 1) i differenziali dei tassi di inflazione tra i vari paesi con particolare riferimento all’inflazione da costi di lavoro; 2) i differenziali dei tassi di crescita e 3) la politica monetaria che per definizione era “una sola” per tutta l’area, e che quindi in presenza di tassi di inflazione differenziati generava tassi reali troppo bassi là dove era necessario averli più alti e viceversa.
I differenziali nei costi del lavoro per unità di prodotto (CLUP) non venivano determinati tanto dalla differenza di produttività, intesa come prodotto per ora lavorata, ma dalle diverse dinamiche salariali che si sviluppano all’interno dei singoli paesi. La crescita della produttività è stata bassa in Germania e Francia, di fatto nulla in Spagna, addirittura negativa in Italia ed invece decisamente positiva in Irlanda e Grecia. Invece in termini di crescita del costo del lavoro (CLUP) rispetto al 1999, Italia e Spagna sono saliti rispettivamente del 25% e del 20%, anche se la situazione è decisamente più preoccupante per l’Italia che per la Spagna in quanto quest’ultima quando era entrata nell’Euro era in una situazione di sottovalutazione dei costi. Viceversa, Francia Germania ed Irlanda hanno avuto fino al 2007 una crescita del costo del lavoro pari a zero o addirittura negativa come nel caso della Germania.
Quando andiamo a vedere la crescita economica osserviamo che i paesi che hanno fatto la migliore performance nel periodo che va dalla nascita dell’unione (1999) alla crisi del 2007 sono in ordine Irlanda (+37%), Grecia (+27%) e Spagna (+20%). La Francia si posiziona nella fascia intermedia con un +15%. Modesta invece la performance della Germania (+10%) e decisamente negativa quella dell’Italia (+5%) e del Portogallo (+5%). Dopo la crisi del 2007 solo la Germania e la Francia torneranno alla crescita, mentre i paesi del Club Med resteranno in recessione.
A differenza dell’Italia, Irlanda e Spagna hanno apparentemente beneficiato dall’entrata nell’Unione Monetaria negli anni precedenti al 2007, ma allo stesso tempo sono state anche le maggiori vittime dei meccanismi dell’euro. In ambedue paesi si è assistito ad una frenetica crescita guidata dal settore edilizio ed alimentata da forti influssi di capitali provenienti dai paesi “core” dell’Europa. Ciò ha portato ad un eccesso di espansione creditizia e alla creazione di bolle speculative sul settore immobiliare, con i tassi di interesse che venivano tenuti dalla BCE a livelli più consoni ad economie a bassa crescita come la Germania o l’Italia che ad economie in fase di forte espansione.
I bassi tassi di interesse stimolavano le costruzioni e aumentavo le valutazioni immobiliari. La forte crescita della domanda interna faceva aumentare il deficit di partite correnti di questi paesi.
Quando sia l’Irlanda che la Spagna stavano per raggiungere il picco della fase di crescita nel 2007 e i prezzi degli immobili stavano salendo vertiginosamente ci sarebbe stato bisogno di una politica monetaria restrittiva per frenare la speculazione, ma il fatto che in Europa la politica monetaria non poteva essere che “una sola” per tutta l’area questa opzione non era evidentemente disponibile.
Il risultato è stato che i due paesi hanno dovuto far maturare le bolle speculative ed assorbire tutti gli effetti che ne sono derivati, tra i quali il collasso delle banche e la devastazione delle finanze pubbliche. Per evitare il fallimento del sistema finanziario il governo Irlandese è dovuto intervenire a sostegno delle banche spingendo il deficit pubblico al 32% del PIL nel 2010. In più, seguendo le politiche di austerità che gli sono state imposte per mantenere la membership dell’Unione, il PIL irlandese è caduto dal 2007 in tre anni di circa il 25%. La speranza per l’Irlanda adesso è che, essendo passata per un forte processo deflazionistico, abbia recuperato una buona posizione competitiva che dovrebbe favorirla nell’aumentare le esportazioni nonostante il forte calo della domanda interna. La situazione è meno rosea per la Spagna, che è in una posizione meno competitiva in termini di costo del lavoro, che deve ancora mettere in sicurezza il sistema bancario ed che ha un problema serio di reddito con un disoccupazione che supera il 20% della forza lavoro tanto da far dubitare che i dati ufficiali riportati sul PIL non siano corretti.
L’altra vittima della crisi è la Grecia che stava nella fase precedente il 2007 come la Spagna in termini di crescita, come l’Irlanda in termini di crescita di produttività, ma come l’Italia nell’avere un alto debito pubblico. L’avvento della crisi l’ha posta in uno stato di insostenibilità delle finanze pubbliche. Le misure imposte per ridurre il deficit dalla Troika la stanno portando al collasso del reddito e alla necessità di presentarsi sempre più spesso a Bruxelles o a Berlino per dichiarare che non riesce a raggiungere i target imposti e a chiedere deroghe. Il problema della Grecia adesso non è se uscire dall’Euro, ma quando.
I problemi dell’Italia, oltre alla più che ventennale questione dell’elevato debito pubblico, sono l’inflazione da costi del lavoro che si è verificata nell’ultimo decennio e che la pone nella posizione meno competitiva nell’Europa con una sopravvalutazione secondo le stime OCSE di circa il 25% rispetto al benchmark europeo e una produttività che è addirittura in decrescita. I problemi industriali italiani sono ben noti:
– La dipendenza per decenni da svalutazioni valutarie ha spinto l’Italia in settori industriali tradizionali come tessile, acciaio e piastrelle a basso contenuto tecnologico, tipici dei paesi emergenti che si affacciano per la prima volta nei mercati internazionali. Il risultato è che se negli ultimi dieci anni i paesi più sviluppati hanno perso in media il 10% della quota del mercato internazionale a favore della Cina ed altri paesi asiatici, la quota persa dall’Italia è di circa il 40%.
– La strutturata industriale continua ad essere dominata da piccole imprese a conduzione famigliare che spendono poco o nulla in ricerca e sviluppo. Parte della stagnazione in cui è caduto il paese va ricercato proprio nella incapacità di rinnovarsi e di crescere di queste aziende.
A questi vanno aggiunti altri noti fattori che contribuiscono alla scarsa efficienza del sistema Italia: gli ostacoli burocratici all’attività economica, l’inefficienza del sistema giudiziario, un sistema di wealfare che protegge le aziende decotte piuttosto che il lavoratore, la mancata privatizzazione dei servizi pubblici locali e il proliferare di inefficienti aziende a partecipazione pubblica, l’esistenza di corporazioni professionali nonostante i ripetuti tentativi di eliminarle, un mercato del lavoro dualistico con un segmento precario e uno protetto. I provvedimenti del governo Monti hanno cercato di riformare alcuni di questi elementi che vincolano il lato dell’offerta dell’economia, ma ancora molto c’è da fare.
In questo quadro impietoso che emerge del caso Italia una nota positiva è che il sistema finanziario sta superando bene la prova della crisi riuscendo a ripatrimonializzarsi in un momento difficile anche al fine di soddisfare la raccomandazione EBA sul capitale. Essendo il paese rimasto quasi fuori dalla dinamica del ciclo economico europeo guidato dal boom edilizio che ha visto protagonisti paesi come Irlanda, Spagna e Grecia, le banche italiane non hanno subito le devastazioni dei bilanci che si sono registrate in quei paesi. L’intervento di sostegno alle banche da parte dello Stato attraverso la sottoscrizioni di titoli subordinati è stato complessivamente di circa 6 mld di Euro di cui 2/3 concentrati su una sola banca. La patrimonializzazione effettuata dalle banche sarebbe stata molto maggiore se non avessero pesato in senso contrario le minusvalenze registrate sul portafoglio dei titoli di Stato.
L’aspetto meno positivo è che la persistenza del premio al rischio sul paese Italia, nonostante le recenti misure messe in atto dalla BCE e dalla Comunità Europea come la costituzione del fondo EFSF e dello scudo antispread, rende molto oneroso il costo di finanziamento delle banche che naturalmente si trasferisce sulle condizioni economiche offerte alle imprese. Questo è un ulteriore elemento di minor competitività del sistema Italia che si va ad un aggiungere ad una situazione già fortemente compromessa dall’aumento del costo del lavoro in termini relativi rispetto agli altri paesi.
La vera domanda alla quale si deve dare una risposta è come può l’Italia tagliare i costi di almeno il 25% rispetto agli altri paesi per poter riguadagnare competitività senza aver a disposizione la leva del cambio? Non ci possiamo aspettare molto da quei paesi che stanno a loro volta subendo pressioni deflazionistiche. E guadagni in termini di produttività che auspicabilmente saranno generati dalle riforme in atto o da altre che potranno seguire non sembrano essere raggiungibili in un orizzonte temporale di breve periodo. L’unica strada percorribile è la strada della riduzione dei costi. Il rischio è che si creino forti pressioni deflazionistiche interne che spingeranno il paese in un prolungato stato di stagnazione sul modello dell’economia giapponese.
Quello che emerge da questo quadro è che la zona euro ha dimostrato di essere lontana da quello che gli economisti chiamano “optimal currency area”. Al suo interno si sono creati forti squilibri finanziari con i paesi del nord creditori e quelli del sud debitori. Il riaggiustamento di questi squilibri, mancando il meccanismo del cambio, sta imponendo ai paesi debitori elevati costi. Esiste oggi un forte consenso che il “breack up” dell’euro imporrebbe costi sociali elevatissimi. E’ probabile che sia così, ma la verità è che nessun è in grado di fornire delle stime attendibili di questi costi, come nessuno è in grado stimare i costi associati al riaggiustamento che dovranno sopportare i paesi debitori. Per salvare la casa dell’Euro è necessario un atteggiamento cooperativo tra i paesi del Nord, in primis la Germania, e quelli del Sud.
Una politica che imponga solo piani di austerità ai paesi debitori è chiaramente controproducente: il risultato è che sta facendo cadere l’intera area dell’Euro in una prolungata depressione. Dato che i paesi debitori hanno strettissimi vincoli di bilancio, sono impossibilitati di mettere in piedi serie politiche di stimolo della domanda. Al contrario, questo ruolo lo dovrebbe giocare la Germania rivedendo il suo modello di sviluppo e attuando politiche di espansione fiscale per far risalire l’economia dell’intera area.
La Germania si trova in una posizione simile a quella della Cina nell’area dollaro/yuan. Dovrebbe abbandonate il suo modello di crescita attuale basato sulle esportazioni e aggiustarsi su un modello che riduca le esportazioni nette e punti di più sulla domanda interna e il welfare. E’ difficile dire se la Cina abbandonerà l’attuale modello di crescita perché dovrebbe fare riforme che il regime politico forse non gradisce, ma è altrettanto difficile prevedere se la Germania abbandonerà il suo rigorismo fiscale per facilitare l’aggiustamento nell’area dell’euro. L’ordine economico internazionale vive una profonda fase di aggiustamento nella ricerca di approdare a nuovi equilibri: sarà il prevalere di un orientamento politico rispetto ad una altro a decidere l’esito dei futuri assetti internazionali.»
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