Il  polverone sollevato dalle parole di disponibilità del  Premier Monti a New York, poi corrette in successive  dichiarazioni,  dimostra ancora una volta la fastidiosa vacuità di tanta parte del dibattito politico italiano, ridotto ad avvitarsi in spirali di parole: parole su altre parole, con poco o nullo rapporto conla realtà. Cosaha detto Monti in realtà? Rivediamolo, per chiarezza. Il Premier ha detto due cose complementari: che egli spera, e conta, che le elezioni portino alla formazione di una maggioranza in grado di governare alla quale egli possa passare la mano; ma che, se questa ipotesi non si realizzasse e si dovesse riprodurre la situazione che ha portato alla formazione del suo governo, egli sarebbe disponibile a continuare. Parole, dunque,  che non giustificano le risse e le dietrologie sollevate, essendo persino troppo ovvio che a decidere il Governo futuro saranno, non Monti, ma gli elettori, ed essi solamente. Parole, dunque, che potrebbero ritenersi persino inutili, se non sapessimo che il Premier le ha dette, in quella particolare sede, nel solo intento di dare qualche rassicurazione ai mercati inquieti (e giustamente) per il nostro fututo nel caso di assenza di una credibile maggioranza.

Le reazioni sono state, del resto, quelle largamente scontate: sia quelle fieramente opposte dei  vari Di Pietro, Vendola, Maroni, Grillo, accomunati dalla incapacità ad  andare al di là di una vuota demagogia, sia quelle dell’UDC e di Fini, interessati a sostenere una riedizione della grande coalizione, come non poteva essere che positiva la reazionedel PLI, espressa attraverso il suo Segretario Nazionale. E  scontate anche quelle dei Segretari del PDL e del PD,  i quali hanno detto quello che era ovvio che dicessero: e cioè che ciascuno dei due compete per vincere e conta di poter governare dopo le elezioni. Sarebbe davvero troppo chiedere a partiti già praticamente in campagna elettorale di  ammettere che non possono vincere.  Ma possiamo essere sicuri che, dentro di loro, l’uno e l’altro sanno che formare una maggioranza di parte in grado, non solo di vincere, ma di governare, è un’impresa  per ora contraddetta dai numeri, e difficilissima se si considera la quantità dei voti che andrà dispersa tra i movimenti di opposizione populista e le astensioni e che , lo si ammetta o no,  una riedizione del Governo Monti  potrebbe ben presentarsi come la sola via percorribile per non far sprofondare il Paese nel caos della demagogia. La questione che è legittimo  porsi è, piuttosto, se un Monti-bis sia o no nel migliore interesse del Paese. Il PLI ha preso su questo punto una posizione che è condivisa da molte autorevoli voci nella società civile. Il punto da cui partire è che l’Italia, per risollevarsi stabilmente  dalla crisi e ritrovare la strada della crescita, ha bisogno, non di demagogia e di populismo, di irresponsabilità e di finanza allegra, di ritorno alla lira e alle vecchie pessime abitudini, di meno Europa e più svalutazioni, ma di serietà: dobbiamo fare in modo che la spesa pubblica, a cominciare da quella per la politica, sia drasticamente ridotta e il patrimonio pubblico gradualmente ma consistentemente ceduto, e che le risorse liberate siano destinate a tre obiettivi prioritari: l’abbattimento del debito pubblico, la diminuzione del carico fiscale, e maggiori investimenti in educazione e ricerca scientifico-tecnologica; dobbiamo fare in modo che il sistema produttivo si ristrutturi senza il riparo di protezionismi o svalutazioni competitive, trovando invece la strada di una maggiore competitività, e che sia radicalmente liberalizzato, così da liberare le energie finora soffocate; dobbiamo fare in modo che il merito sia il criterio assoluto per ogni incarico pubblico e privato, e i partiti tolgano le mani da settori, come le aziende municipali e la sanità, in cui non hanno nulla da fare.  Il Governo Monti si è avviato su questa strada, e sperabilmente probabilmente vedremo nei prossimi mesi altri passi in avanti. Però non ci illudiamo: un’impresa del genere non è cosa di mesi ma richiede, come minimo, un’intera legislatura, una legislatura che, inoltre, dovrà finalmente completare la riforma costituzionale in modo da dare all’Italia istituzioni davvero al passo coi tempi; e dobbiamo, non solo restare fedeli all’Europa, ma adoperarci in prima linea per una ulteriore sue integrazione, perché l’Europa è il solo, vero futuro per tutti. Tutto ciò, va ripetuto,  non si fa dall’oggi al domani, richiede tempo e richiede, va da sé, un ampio consenso, non solo tra le forze presenti in Parlamento, ma tra i principali gruppi di opinione – e di interessi – nel Paese. Può  riuscirci una maggioranza di parte che sarebbe, nel migliore dei casi, risicata e non rappresenterebbe che una metà del Paese? Bipolarismo e alternanza sono, sulla carta, propri della democrazia ma possono funzionare in momenti di crisi grave e in periodi “costituenti”? Se guardiamo ai due principali raggruppamenti possibili la risposta non  può che essere alquanto dubbia, e non solo perché l’uno e l’altro hanno avuto negli ultimi dieci anni ripetute opportunità di fare il necessario e le hanno tutte fallite, non per la fatalità di un destino cinico e baro ma per le loro gravi carenze e contraddizioni interne.  Eppure, nel decennio precedente, erano state fatte cose non irrilevanti: le privatizzazioni, la riforma del sistema pensionistico, l’ingresso nell’euro. Poi le cose si sono avvitate su se stesse, e non è casuale che ciò sia avvenuto quando al governo c’erano Berlusconi, per otto anni complessivi, e per due anni un Prodi  paralizzato dalle crepe  di un’alleanza  innaturale e ingestibile, che metteva insieme Diliberto, Bertinotti, Mastella e Dini. Sono migliorate le cose da allora? Non sembrerebbe proprio.

A destra Berlusconi torna a riproporsi con la stessa leggerezza, ma con una dose aggiuntiva di  populismo che fa tremare. In una nota di qualche tempo fa, ricordai che a Bruxelles circolava un libriccino in francese, opera di giornalisti accreditati nella sede delle istituzioni europee, dal suggestivo titolo: “Berlusconnades”. Il libro, pubblicato  quando il Cavaliere era ancora Premier, conteneva una lista accurata di tutte le sue gaffe e i suoi spropositi, e sarebbe stata una lettura divertente, se non fosse stata triste per chi ama il nostro Paese e vorrebbe vederlo, in Europa e altrove, rispettato nelle sue istituzioni e nelle persone che le rappresentano. Ora  l’ex Premier, da vecchio capocomico che non si rassegna a uscire di scena, è tornato a spararle grosse, addossando la responsabilità della crisi – nell’ordine – a Monti, all’euro, alla Germania, che ci obbligherebbe a una “rovinosa” politica di rigore fiscale. Una politica, mi pare evidente, che è invece  imposta dall’entità di  un debito di cui era diventato quasi impossibile fronteggiare le scadenze; un  debito no creato, ma certo aggravato anche da anni di irresponsabilità berlusconiana, e che ha come sola alternativa un catastrofico default che porterebbe il nostro PIL a cadere ben più giù del presente,  e ci farebbe uscire dal giro dei Paesi affidabili, con immediate e gravi ripercussioni sugli investimenti, nostri  e stranieri.  Non pago, l’ineffabile personaggio ha detto che “se la Germania uscisse dall’euro non sarebbe una tragedia” (che è come dire che se Lombardia, Piemonte e Veneto uscissero dall’Italia non sarebbe poi tanto grave).  I commenti di Berlino, che ha definito questi proposito “un’assurdità’” mi sono sembrati di una compostezza quasi anglosassone. E infine, l’ultimo razzo, qualificando Equitalia di “estorsionista”, giacché  probabilmente, per il nostro Paperon de’ Paperoní, pagare e far  pagare le tasse è un fastidioso inconveniente da evitare per quanto possibile. Fini, per questo,  lo ha accusato di ribellione fiscale e, per colmare la dose, lo ha definito “corruttore”, esponendosi volentieri a querela. Se Berlusconi ha davvero corrotto, lo può stabilire solo la Giustizia, ma in senso lato non può negarsi che il Cavaliere sia corresponsabile non secondario della generale corruzione del costume politico e morale in Italia, ben esemplificato dai bunga-bunga, dalle generose dative a ragazzotte di dubbia moralità, e dalla “scelta a dito” di una classe politica in cui, accanto a gente senza dubbio perbene, un po’ smarrita in una compagnia tanto strana, hanno proliferato odontologhe  spogliarelliste, vallette ambiziose, squinziette varie elevate a presiedere commissioni culturali, indagati dalla Giustizia e anche qualche condannato, e  tipi alla Fiorito.  È lo stesso metodo che ha obbligato mezzo Parlamento italiano a piegarsi alle esigenze giudiziarie del Cavaliere con leggi, approvate o tentate, fatte solo per salvarlo dai rigori della Giustizia.

Ma Berlusconi è tuttora  il padre-padrone di una forza politica che resta fondamentalmente un partito-azienda e dove le persone responsabili, che pure ci sono, sono costrette a tacere o a smentirsi appena il Capo apre bocca. Come si può dunque pensare di affidarci, ancora una volta, a quella forza politica? E con che tipo di maggioranza, visto che essa  non sembra in grado di superare il 20%? Ma davvero è riproponibile in Italia il fallimentare asse tra un Berlusconi che dà colpi disperati da affogato, nel tentativo di recuperare la sfuggita popolarità, e una Lega in profonda crisi morale e in perdita di consensi, obbligata ad arroccarsi sulle sue posizioni più vetero-antinazionali?

A sinistra, peraltro, non è che le cose vadano tanto meglio. Diciamolo francamente: la correttezza morale a cui quel Partito, per vecchio costume, cerca di attenersi, è spesso contraddetta a livello locale (caso Penati insegna). Sul piano politico, non sappiamo se prevarrà nel PD la stanca nomenclatura che ricorda i tempi anchilosati di Breznev, o l’aria nuova portata dal Sindaco di Firenze (con tutte le sue non indifferenti incognite). Ma se tornasse a prevalere la nomenclatura, che credibilità avrebbe, dopo tanti fallimenti? E che affidabilità avrebbe un’alleanza con un Vendola  portatore di programmi e parole d’ordine difficilmente conciliabili con quelli di Bersani (per non parlare di Veltroni e dei Letta, Franceschini e altri di origine democristiana). Come si può conciliare il rigore promesso dal Segretario del PD con i piani del SEL? E comunque, quali sono i programmi reali dell’on. Bersani? Lui promette rigore fiscale ma dichiara di volerci mettere più lavoro ed equità. Magnifico! Chi può essere contro il lavoro e l’equità? Però ci deve dire come essi si realizzano. Maggiore equità vuol dire più tasse sui redditi alti e, magari, la patrimoniale?  Niente di demoniaco ma ce lo dicano. Più lavoro – e meno precariato – vogliono dire grandi lavori pubblici, o produzione e consumi sovvenzionati, e con che soldi? O leggi coercitive a carico delle imprese perché assumano e con contratti a tempo indeterminato? Cosa vuole  realmente il PD? Un’economia libera e liberale o il ritorno a uno statalismo appena velato? Sono domande scomode, ma vitali e la gente ha il diritto di avere una risposta chiara prima delle elezioni, non dopo, se non si vuole votare “a scatola chiusa”.

In definitiva, una continuazione del processo di risanamento che porti l’Italia a essere quella del miracolo economico e ci ricollochi tra i grandi Paesi dell’Occidente, appare credibile se affidata a chi sta dimostrando di volerlo e saperlo fare:  un Governo competente, super partes nella misura in cui non deve rispondere a clientele politiche determinate, e sostenuto da un largo consenso nel Parlamento e nel Paese.  Così l’Italia conserverà la credibilità ritrovata con fatica e sacrificio. E lasciamo pure che i Grillo, i Di Pietro, i Maroni (i Calderoli!) e i Vendola, restino al margine, a fare da coretto abbaiante mentre la grande, la nobile carovana del Paese va avanti.

Pensare che questa sia la soluzione buona, e limitarsi ad aspettare che essa si imponga per forza propria, però, non basta. In democrazia, ciascun elettore ha in mano lo strumento per far sì che le cose vedano come spera che vadano. C’è in Italia una vasta area di moderati, tendenzialmente liberali e riformisti, che comprendono e condividono l’esigenza di serietà e di pulizia e respingono ogni populismo, di destra e di sinistra. Quest’area non ha trovato durante la Seconda Repubblica la maniera per articolarsi ed esprimersi. Ora, nel declino dei partiti tradizionali, questo è possibile. Non credo che per questo tirare in ballo il Premier in una “lista Monti” sia corretto, e certo il Premier stesso non lo autorizzerebbero. È invece del tutto legittimo che appaia e si dichiari una grande forza di centro, democratica, liberale, riformista, europea, quale è stata preconizzata dal PLI – ed anche da  Montezemolo, Casini, Fini – e che essa si ponga come orizzonte una continuazione della solidarietà nazionale. Passare dalle intenzioni – dalle parole – ai fatti, è ora indispensabile. Unire, da noi, è sempre più difficile che dividere. Però il momento è venuto di adoperarsi attivamente per riunire una vasta aggregazione pro-Italia che possa davvero risultare determinante, alle elezioni e dopo, a Roma e in periferia, dovunque la gente richiede un’amministrazione competente, pulita e in grado di vegliare al futuro dei nostri figli.

© Rivoluzione Liberale

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