Con l’avvento del ventunesimo secolo la società italiana ha conosciuto un consistente vuoto dottrinale determinato dal mancato radicamento dell’ideale liberal-democratico, esplicatosi – agli occhi dell’osservatore contemporaneo – con le fattezze di un vero e proprio tracollo dell’adesione dei cittadini alla vita politica del Paese.

All’interno di certi ambienti illiberali la cornice storica, culturale e sociale del liberalismo viene molto spesso deprivata dei suoi significati fondamentali, metodo e prassi, e ridotta ad una mera pratica economica – i pensatori illiberali demonizzano, non a caso, la concezione ideale liberale quale capro espiatorio dell’odierna crisi economica – trascurando, in questo modo, gli elementi valoriali più pragmatici e costruttivi dell’azione liberale.

Il liberalismo non corrisponde ad un’ideologia ma è una prassi di governo capace di coniugare principi ed empiria. Di fronte alla crisi economica e politica che caratterizza il nostro Paese oggi deve essere necessariamente recuperata questa impostazione pragmatica del liberalismo: si avverte l’esigenza di recuperare i principi e, nel contempo, la capacità di tradurli in programma per il governo del Paese.

Il liberalismo è un luogo di elaborazione, di contemperamento e di superamento degli einaudiani punti critici, e quindi del rapporto individuo-Stato. In particolar modo, oggi, in Italia come in Europa, l’attualità del pensiero liberale si gioca su temi cruciali quali la ricostruzione delle sovranità, l’attacco ai debiti sovrani, la razionalizzazione dei sistemi fiscali che devono diventare sostenibili, i tagli alla politica, la tassazione della libera iniziativa, la laicità dello Stato, i diritti individuali fondamentali e il rispetto delle minoranze (anche sul piano economico). Un “Risorgimento liberale” contemporaneo dovrebbe partire da queste premesse.

Nella nostra società le parole “liberale” e “riformismo” sembrano particolarmente alla moda, se ne parla in convegni, tavole rotonde, sui giornali ma, molto spesso, si attribuiscono ai suddetti termini significati devianti, non originali. Il riformismo liberale ha invece origini lontane e si richiama chiaramente all’esperienza risorgimentale, all’opera di Cavour ad esempio, per il quale il progresso economico deve necessariamente andare di pari passo con quello politico. “L’umanità – sostiene l’illustre politico piemontese – è diretta verso due scopi, l’uno politico, l’altro economico. Nell’ordine politico essa tende a modificare le proprie istituzioni in modo da chiamare un sempre maggiore numero di cittadini alla partecipazione al potere politico. Nell’ordine economico essa mira evidentemente al miglioramento delle classi inferiori, ed a un miglior riparto dei prodotti della terra e dei capitali”. Allo stesso modo Giolitti afferma: “Io consideravo che, dopo il fallimento della politica reazionaria, noi ci trovavamo all’inizio di un nuovo periodo storico […]. Il moto ascendente delle classi operaie si accelerava sempre più ed era moto invincibile perché comune a tutti i paesi civili e perché poggiava sui principi dell’eguaglianza tra gli uomini […]. Solo con una [diversa] condotta da parte dei partiti costituzionali verso le classi popolari si sarebbe ottenuto che l’avvento di queste classi, invece che essere come un turbine distruttore, riuscisse ad introdurre nelle istituzioni una nuova forza conservatrice e ad aumentare grandezza e prosperità alla nazione” (“Memorie della mia vita”, G. Giolitti, 1922).

Il liberalismo italiano affonda le sue radici nel nostro Risorgimento, il periodo glorioso, culla e incubatrice del moderno Stato nazionale, quello Stato del quale Giolitti si riteneva il sarto che dovendo confezionare un vestito per un gobbo deve fare la gobba anche al vestito. Giolitti è dunque consapevole del fatto di dover governare un paese gobbo che egli ha intenzione di “raddrizzare” ma, realisticamente, governare per quello che è. Egli è il liberale progressista o un conservatore illuminato che dimostra di sapersi adattare, cercando di padroneggiarla, alla variegata e complessa (fin da allora) realtà politica italiana.

È innegabile la tendenza, sfondo di tutta l’attività politica giolittiana, di spingere il Parlamento ad occuparsi dei conflitti sociali al fine di comporli tramite opportune leggi. Per Giolitti, infatti, le classi lavoratrici non vanno considerate alla stregua di una pura opposizione allo Stato – come fino ad allora era avvenuto – ma occorre riconoscere loro la legittimazione giuridica ed economica. Compito dello Stato è quindi quello di porsi come mediatore neutrale tra le parti, poiché esso rappresenta le minoranze ma soprattutto la moltitudine di quei lavoratori vessati, fino alla miseria, dalla legislazione fiscale e dello strapotere degli imprenditori nell’industria. Un aspetto della sua attenzione alle classi popolari può essere considerata anche l’innovazione della corresponsione di una indennità ai parlamentari che sino ad allora avevano svolto la loro funzione a titolo gratuito. Questo avrebbe consentito, almeno in linea teorica, una maggiore partecipazione dei meno abbienti alla carica di rappresentante del popolo. Era quindi questo il significato originario dell’indennità ai parlamentari, trasformatasi invece nel corso del tempo in una evidente forma di privilegio.

Uno dei maggiori economisti del Risorgimento, Francesco Ferrara, sviluppa invece la critica liberale nei confronti dello Stato etico. Già Bastiat aveva definito lo Stato come “la gran finzione per mezzo della quale tutti si sforzano a vivere a spese di tutti” e Ferrara nel suo “Germanesimo economico in Italia” (1874) approfondisce l’argomento. Egli rimprovera i “professori tedeschi”  – ossia i “socialisti della cattedra” – e i loro seguaci in Italia di “deificare lo Stato […]. Se lo figurano tal quale lo trovano dipinto in un trattato giuridico, in una qualsiasi filosofia del diritto e della storia, […] mentreché nel mondo pratico lo Stato fu sempre e sarà il governo”. Nel 1884 Ferrara sottolinea inoltre che “l’ufficio del governare è una fra le migliaia di occupazioni, una delle tante industrie, uno de’ tanti mestieri che […] danno l’idea dell’attività sociale […]. Da ciò, una classe di produttori, addetti a procurare quella tale utilità che si chiama giustizia, ordine, tutela, in una parola governo”. “L’utilità sociale che il governo produca – sottolinea Ferrara – non può, da lui medesimo o da lui solo, estimarsi”. Per cui “noi, nazione-governata siamo i soli a cui spetti il decidere se ella meriti quel prezzo che il produttore-governo, per mezzo delle imposte di cui ci aggrava, o delle privazioni a cui ci condanna, pretenda di farcela costare […]. Tale è la portata dell’espressione che noi usiamo, libertà economica”. In questo modo Ferrara salda insieme liberalismo politico e liberalismo economico e assimilando l’economia finanziaria all’economia privata l’economista siciliano definisce, inoltre, i casi in cui fra prelievo statale e spesa pubblica non vi sia perfetta corrispondenza (in termini di utilità sottratta e restituita) perché il prelievo risulta più oneroso di quanto non risulti vantaggiosa la seconda. Ferrara non manca infine di criticare la contaminazione fra politica e grandi affari nel Piemonte di Cavour e nell’Italia unita, e da qui la lotta contro il monopolio della Banca Nazionale e la denuncia del protezionismo doganale.

Nel Novecento, Luigi Einaudi, nominato senatore del Regno nel 1919 su proposta di Giovanni Giolitti, si afferma come uno dei più tenaci sostenitori della necessità di abbandonare ogni forma di socialismo di Stato che si era infiltrato nella vita economica italiana durante la prima guerra mondiale; idee ampiamente esposte nel libro “La condotta economica e gli effetti sociali della guerra italiana” (1933). Come è noto Einaudi non è affatto un nemico dello Stato ma sostiene che “l’uomo libero vuole che lo Stato intervenga, così come sono sempre intervenuti i legislatori saggi di tutti i tempi e di tutti i paesi”.

“Forseché – aggiunge Einaudi – i codici del diritto privato non danno da millenni norme alle quali i cittadini si devono attenere nelle loro transazioni civili e commerciali, nella loro vita familiare (matrimoni, paternità, filiazione e relativi doveri)? Lo Stato interviene per fissare le norme di cornice entro le quali le azioni degli uomini possono liberamente muoversi; non ordina come gli uomini debbono comportarsi nella loro condotta quotidiana”. In questo modo Einaudi esprime il suo chiaro rifiuto nei confronti di uno Stato etico e antepone il buonsenso liberale ad ogni forma di dogmatismo politico, culturale e dottrinale.

Oggi le sue “Prediche inutili” sono più utili che mai. In quest’opera, apparsa dapprima in dispense nel 1955 riunite poi in volume nel 1959, il primo Presidente eletto della Repubblica italiana evidenzia, con estrema consapevolezza, la fragilità dell’attuale “miracolo economico” e individua le cause profonde della mancata solidità dei progressi compiuti, cercando di indicare dei rimedi opportuni. Einaudi non si stanca di insistere sulle norme del buon governo, dall’economia alla scuola, alla pubblica amministrazione, alla legislazione sociale e al finanziamento ai partiti. Disegna inoltre i tratti di una operosa solidarietà liberale che mira a supportare i più deboli senza contraddire le regole del libero mercato e, soprattutto, agisce all’interno della cornice di uno Stato di diritto il quale individua dei vincoli “uguali per tutti, oggettivamente fissati e non arbitrari”; in uno Stato di diritto vige, in pratica, “l’impero della legge” e il liberismo non corrisponde alla filosofia del “tutto è lecito”. L’individualismo esasperato, un laissez faire sfrenato e senza regole, il cosiddetto ‘laissez passer’, la mancanza di discussione e nel contempo di libertà di critica e di opposizione, non sono i tratti distintivi di una società liberale. Einaudi, infine, ama ripetere che per deliberare occorre conoscere a fondo la realtà nella quale si opera attraverso studi non viziati da tendenziosità, schemi preconcetti e, ancor peggio, interessi di parte.

L’ammirevole rigore scientifico di Luigi Einaudi, la sua apertura mentale e la sua concretezza, la sua autorità e nel contempo la sua umiltà, l’esemplare chiarezza con cui espone le sue idee, rese accessibili a tutti, la sua politica antiprotezionistica a antidirigista, la convinzione con cui coniuga le leggi della scienza economica con la sfera dei valori e dell’etica, con lo studio dell’organizzazione sociale e delle istituzioni, il suo spiccato (e alquanto profetico) europeismo – già durante la guerra Einaudi immagina il deperimento degli Stati sovrani e prefigura una federazione dei popoli europei; in un opuscolo clandestino del 1943 anticipa la “abolizione della sovranità dei singoli Stati in materia monetaria” – dovrebbero essere, insieme ai già citati valori risorgimentali (partecipazione al potere politico, uguaglianza dei principi, miglioramento delle classi inferiori, buona condotta dei partiti costituzionali, orgoglio e interesse nazionale), i tratti fondanti di un autentico Risorgimento liberale, chiamato a ripetersi vichianamente nel corso della storia.

All’interno di un tale Risorgimento le forze liberali presenti nella società non dovrebbero assumere posizioni incerte e quindi non aggreganti ma, al contrario, dovrebbero evidenziare, in maniera incisiva e vigorosa, e in ogni occasione, la loro ‘identità’ e, nel contempo, la loro ‘diversità’ dai partiti alleati. Le forze liberali, come sempre nel corso della storia, sono chiamate a dimostrare la forza pragmatica dei propri principi e della propria cultura politica perché l’elettorato liberale non apprezza le polemiche sterili ma vuole efficienza operativa e decisioni concrete.

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