Forse è poco noto che il conflitto israelo-palestinese non riguarda solo la disputa sui cosiddetti TOP, i territori occupati palestinesi, come il panorama internazionale continua a credere, ma soprattutto l’uso delle risorse idriche.
Il fiume Giordano rappresenta la maggiore fonte d’acqua in Palestina. Oggi, l’85% dell’acqua palestinese viene usata dagli israeliani che si sono impadroniti di territori durante la Guerra dei Sei giorni del 1967, preferendo quelli con accesso a risorse idriche situate sulle alture del Golan. Dal 1967 Israele gestisce l’acqua palestinese facendone ingente prelievo e limitandone l’uso alla popolazione. A quel tempo, Israele decise di interdire l’uso dell’acqua ai palestinesi stabilendo unilateralmente il divieto di scavo di pozzi vicino ai territori israeliani occupati con la guerra, senza il permesso accordato dall’autorità israeliana.
La dimensione idrica del complesso conflitto israelo-palestinese gioca un ruolo importante nei negoziati di pace non solo tra le due parti, ma anche a livello globale nella regione medio orientale. Ecco perché l’equilibrio regionale in primo luogo, ma anche quello globale devono essere salvaguardati.
Secondo un rapporto della Water Right Foundation, nei territori occupati palestinesi (TOP) sarebbero disponibili all’anno solo 320 mc d’acqua pro capite, un livello molto vicino alla soglia di sopravvivenza idrica; dato l’aumento costante della popolazione palestinese e la sua forte dipendenza dall’agricoltura, si vede bene come la questione delle risorse idriche potrà solo peggiorare le relazioni tra i due ‘contendenti’. L’ipotesi di estensione futura del conflitto idrico è supportata anche dall’importanza che il fiume Giordano riveste per altri stati, quali Giordania e Siria, futuri attori della guerra idrica.
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