Un prestito di 4,8 miliardi di dollari è in arrivo per l’Egitto. L’usura e, in generale, il prestito ad interesse, è vietato dall’Islam ma questo “è perfettamente compatibile con la religione”, aveva affermato all’apertura dei negoziati il Presidente egiziano Mohmed Morsi, leader della Fratellanza Musulmana. Non c’è religione che possa far andare in bancarotta uno Stato; in guerra civile sì, ma i finanziamenti no, quelli non sono musulmani né cristiani. L’Egitto ne ha bisogno per rialzarsi, i costi della Primavera Araba sono stati alti, la disoccupazione si attesta al 12%, il 20% degli egiziani vive sotto la soglia di povertà.
In aiuto della lira egiziana non è intervenuto solo il FMI: anche il Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG) ha stanziato 18 miliardi, di cui 4,5 garantiti dal governo Saudita. Gli aiuti internazionali – è noto – sono subordinati al raggiungimento di certi standard economici; nel caso egiziano la stabilità che si auspicava era soprattutto politica, onde evitare una nuova Piazza Tahrir.
Dal punto di vista economico, il governo egiziano di Morsi ha dovuto stringere la cinghia sui sussidi erogati sul grano e sul carburante che assorbivano gran parte della spesa pubblica. Il primo ministro Hisham Qandil ha dichiarato che entro giugno 2013 l’Egitto avrebbe dovuto raggiungere una crescita economica del 3,8%, dopo che nell’anno passato si era attestato sul 2,2%. Dopo la crescita, altro obiettivo sarà ridurre il deficit di bilancio (che pesa sul PIL egiziano per l’ 80%) di tre punti percentuali da 11% all’8 % .
Oltre alla crescita economica, Morsi promette anche maggiore credibilità internazionale al suo popolo; l’aver mediato la crisi di Gaza ha sicuramente aiutato il Paese a presentarsi positivamente al FMI e oggi i tavoli dei negoziati appaiono distesi e diretti fra l’Egitto e il grande finanziatore internazionale.
Di fronte alla crisi economica anche l’Egitto si fa mettere la mani in tasca dall’FMI e le finanze pubbliche divengono in un batter d’occhio ostaggio della comunità internazionale. Sono evidentemente passati i tempi in cui un leader politico come Nasser poteva permettersi di nazionalizzare il Canale di Suez (1956), rivendicando la sovranità sul porto più importante per l’economia egiziana e scontrandosi a viso aperto con gli interessi occidentali.
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