L’Unione Europea è stata costruita, fra le altre cose, per portare pace e benessere a tutti i cittadini europei e per essere un faro di cultura e prosperità per l’intero pianeta.
Il cammino verso «l’eguaglianza delle condizioni», come ci ricorda Tocqueville, è impervio e faticoso, ma se lasciamo che la scuola abdichi al ruolo che deve aver nella formazione delle generazioni future, allora la prospettiva di breve termine fagociterà lo sviluppo di un «mondo italiano» più equo e liberale. Empiricamente sappiamo che la mancanza di merito e di competizione nel nostro sistema Paese ha prodotto risultati non solo negativi per il presente ma svantaggi competitivi per il futuro. I dati del Rapporto sull’Istruzione dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE) evidenziano che la spesa pubblica per la formazione in Italia non si discosta molto dalla spesa degli altri Paesi (mentre è inferiore la spesa per l’Università). Come per altri ambiti, è il modo in cui la spesa viene posta in essere, a farela differenza. La meritocrazia è un elemento sconosciuto della dinamica produttiva scolastica: la progressione di carriera degli insegnanti è basata solo sull’anzianità e il reclutamento basato, a volte, più sulla necessità di trovare un lavoro che sulla competizione effettiva di «talenti» che desiderano dedicarsi all’insegnamento e allo sviluppo del capitale umano. Ma per attrarre i migliori insegnanti non si possono stabilire stipendi sotto la media.
Ma perché nel nostro Paese abbiamo paura della parola «valutazione»? Forse perché siamo troppo abituati alla mediocrità imperante per permettere a qualcuno, con un vestito pubblico o privato che sia, di arrogarsi il diritto di valutarci e di dirci come siamo, a che punto siamo arrivati e quali sono le capacità sulle quali sarebbe opportuno investire per migliorarci? Questo potrebbe essere un buon punto di partenza per ristrutturare la scuola da sistema organizzato per l’apprendimento ad «ambiente di apprendimento», capace in sostanza di insegnare agli studenti la capacità di servirsi della conoscenza per risolvere i problemi e vivere efficacemente nell’entropia e nella complessità del mondo moderno. Noi tutti viviamo nella società della conoscenza, e l’avere sostituito l’immaterialità dei servizi alla materialità dei prodotti – cosa fra l’altro da rivalutare in un Paese come il nostro dove il settore manifatturiero delle Pmi è l’asse portante della produzione industriale – non significa che non debbano esserci oggettivi strumenti di valutazione e di analisi capaci di indirizzare le scelte strategiche. La società della conoscenza impone un livello ulteriore di merito e di competizione basata su piattaforme di valutazione nelle quali non possono trovare posto il clientelismo, la mancanza di responsabilità o una politica conservatrice che preferisce difendere diritti acquisiti invece di investire con slancio e motivazione nel futuro.
La riforma del sistema scolastico (e del sistema universitario) dovrà essere uno snodo fondamentale delle complesse riforme strutturali di cui dovrà occuparsi il prossimo Governo. La sfida è quella di rendere il sistema italiano dell’istruzione coerente con le sfide che ci attendono. L’Europa diventerà sempre di più un ambiente economico e sociale integrato dove sarà necessario far coesistere competitività ed equità sociale. Per conseguire questo obiettivo, divengono fondamentali le attività e i processi educativi e formativi che gli Stati pongono in essere per dare ai cittadini europei livelli di istruzione e formazione più elevati degli attuali. I processi formativi dovranno essere continui e capaci di sviluppare competenze, anche diverse, durante tutto il percorso lavorativo.
Con responsabilità e merito, questa ulteriore sfida che il nostro Paese attende, sarà vinta nella certezza che chiunque la implementerà – e solo se sarà animato da spirito liberale e costruttivo, rivolto al futuro e non al passato – potrà farcela e rendere più giusta è più intelligente la scuola del domani.
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