In una fase squallida e autistica della vita italiana, le dimissioni del Papa sono venute a ricordarci che ci sono questioni più importanti ed elevate delle volgarità del Cavaliere e delle utopie massimaliste, dei condoni tombali e delle patrimoniali, del processo Ruby o della banda del 5%. Perché, se anche la Chiesa di Roma non ha più il ruolo centrale che ha avuto a lungo nel pensiero e nella politica italiani, la sua influenza residuale sulle coscienze di quelli che al Soglio di Pietro continuano a guardare come a una fonte di ispirazione non è indifferente e la scelta del nuovo Papa non sarà di segno neutro.

Nella mia esistenza, di papi ne ho visti sei (sette, se si conta Pio XI, morto però quando ero troppo piccolo per ricordarlo). Il Papa della mia infanzia e giovinezza, Pio XII, lo ricordo come un uomo di un grande ascetismo, rigore morale e straordinario carisma personale. Per la sua rigidità teologica e per il suo assolutismo teocratico è stato ed è tuttora criticato e molti lo vituperano per non avere elevato la sua voce a difesa degli ebrei. Su questo punto il dibattito resta aperto tra chi ragiona in nome di un’etica assolutista e chi riconosce a Papa Pacelli di aver taciuto per non peggiorare la stessa condizione degli ebrei e, soprattutto, per non provocare la vendicativa ira di Hitler sui cristiani affidati alle sue cure. Ma, avendo vissuto molto da vicino le ansie e le battaglie del primo dopoguerra, di una cosa sono certo: fu la sua ferma volontà a opporre una diga al socialcomunismo invadente e, per riflesso, all’Unione Sovietica. Senza la sua rigidezza e l’opera capillare della Chiesa, le fondamentali elezioni del 1948 avrebbero forse visto la vittoria del Fronte Popolare e tutta la storia, nostra ed europea, sarebbe stata diversa. E peggiore.

Tra i suoi successori, Paolo VI mi è parso un personaggio troppo amletico e torturato da essere capace di trasmettere una fede semplice e salda. Certo, ha il merito di aver portato a compimento il Concilio Vaticano II, senza però andare  abbastanza in là nel rinnovamento necessario. Giovanni Paolo II è stato soprattutto il papa della fine del Comunismo e della grande opera mediatica, una figura di dimensioni enormi. Fuori dell’ordinario. L’ho incontrato in Africa e ho sentito l’intenso carisma che emanava dalla sua persona. La sua opera teologica è stata però improntata a un netto conservatorismo e poco o nulla ha fatto per ripulire la Chiesa dai suoi vizi peggiori. La sua protezione di Marcinkus, la sua dura repressione dei sacerdoti riformisti dell’America Latina, il suo effettivo silenzio sui preti pedofili, hanno contribuito ad allontanare molta gente dalla Chiesa e dalla stessa fede. In Italia ha goduto, certo, di grande prestigio, ma la sua posizione indiscussa si è dovuta soprattutto al superamento dei vecchi steccati pro ed anti-clericali che avevano caratterizzato più di un secolo della nostra Storia, con il conseguente, normale rispetto instauratosi reciprocamente tra Pontificato e Autorità civili anche di segno dichiaratamente laico.

Il Papa più caro e indimenticabile resta, per me, Giovanni XXIII. Chi aveva la fortuna di incontrarlo e parlargli non poteva che essere colpito dalla forza elementare della sua fede, dalla sua luminosa bontà, dalla sua semplicità francescana da parroco di campagna, ma anche dalla sua sincera e profonda apertura di spirito. Col Concilio Vaticano II, è il Papa che più e meglio ha cercato di togliere alla Chiesa incrostazioni millenarie che la soffocavano (e in parte la soffocano ancora) e metterla al passo con i tempi, riportandola alle semplici verità evangeliche. Papa Luciani avrebbe forse seguito la stessa linea. Non gli è stato possibile, o forse non glielo hanno permesso.

Per Benedetto XVI non sentivo, lo confesso, grande attrazione. Un amico sacerdote, anziano e saggio, che lo aveva conosciuto e praticato nella Curia romana, quando gli chiesi un’opinione sul Papa neo-eletto mi rispose: “È un teologo tedesco”. E tale è a mio avviso rimasto in questi anni di pontificato, nei quali ha, sì, seguito il suo predecessore sulla strada dei grandi incontri collettivi e mediatici ed ha mantenuto alla Chiesa una posizione di prestigio nella vita italiana, rinnovando con il laico Napolitano rapporti di amicizia e di fiducia, ma ha in realtà presieduto a un visibile declino della sua vera influenza, non risolvendo i nodi più dolorosi che l’affliggono. Ho letto i suoi libri, le sue interviste, e vi ho trovato una notevole sapienza teologica, una ricchezza di citazioni e riferimenti alla Bibbia, a San Paolo, ai Padri della Chiesa, ma (forse per deformazione mia) non vi ho trovato la scintilla che cercavo, capace di riaccendere il rogo della Fede e, assieme a questa, della Speranza e della Carità (quella scintilla che, invece, mi era parso di trovare negli scritti del Cardinale Martini).

Le sue dimissioni, così inattese, sono peraltro un gesto di elevatezza d’animo e anche di coraggioso realismo. Rinunciare di colpo a una delle funzioni più alte nel mondo non deve essere facile. Sia dato atto a Benedetto XVI di averlo fatto, risparmiandoci l’agonico spettacolo dato dal suo predecessore nei suoi ultimi anni e insegnandoci che nessuno è indispensabile, che la vita e la Storia fluiscono a velocità sempre maggiore, e quando non si è più in grado di tenere il passo è meglio farsi da parte.

Ora si apre il problema della successione. Le previsioni dei vaticanisti sono, si sa, aleatorie. Personalmente, mi sembra che sia venuto il momento di un Papa che venga da una delle due grandi aree che oggi danno alla Chiesa cattolica il maggior numero di fedeli  praticanti e continuano a fornire vocazioni che in Europa diminuiscono a vista d’occhio, e cioè innanzitutto l’America Latina, ma anche l’Africa. Regioni dove il messaggio evangelico è ancora sentito nel vivo e i problemi fondamentali della condizione umana – miseria, malattia, disperazione – sono ancora, sia pure con diverse gradazioni, più diffusi che nella ricca e scettica Europa.

Il compito che attende il futuro Papa non sarà leggero. Dopo decenni di semi-immobilità teologica, dovrà affrontare questioni come il ruolo delle donne, la posizione dei divorziati, il matrimonio dei preti (col suo triste rivolto, il problema della pedofilia), l’ossessione contro il sesso, l’aborto in certe condizioni, il controllo delle nascite, la ricerca sulle cellule staminali, la difesa contro l’invasione dell’Islam, la lotta alla povertà e alle disuguaglianze sociali. Sono questioni con scarsa attinenza con i dogmi ma molta con la vita della gente. Capisco benissimo che per la Chiesa e il suo Capo, anche al di là delle convinzioni personali, esse pongono un dilemma tra la necessità di avvicinare il pensiero cristiano alla realtà in mutazione della condizione umana e, dall’altra parte, di non lasciarsi andare a un relativismo di comodo e non causare dolorose lacerazioni interne e la diaspora degli integralisti. Meglio, tuttavia, correre questi pericoli che perpetuare un’immobilità che rischia di spingere poco a poco la Chiesa ai margini delle preoccupazioni umane e renderne irrilevante il ruolo al di fuori di un sempre più ristretto numero di incondizionali. Non sarebbe la prima volta che una grande Religione ha perduto il suo vero senso tra la gente, riducendosi a elemento anche colorito e diffuso di folclore.

È dunque da augurarsi che il nuovo Papa affronti i problemi della Chiesa e della Fede nel XXI Secolo guardando a quello che sta davvero a cuore alla gente; mettendo, magari, coraggiosamente da parte l’impalcatura di secoli e secoli di dottrina, le oscure letture  bibliche o apocalittiche, e riferendosi invece al Vangelo, il cui messaggio è di una limpidità, di una vivezza e di un’altezza che parlano ancora con voce ben più immediata di qualsiasi profezia biblica o lettera di San Paolo al cuore degli uomini.

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